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RS-Repubblica: Sacchi: “Io, il calcio senza cultura e il mio amico Ballardini” – 18 Feb

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Vi proponiamo qui di seguito una bellissima intervista ad Arrigo Sacchi del nostro amico Simone Monari pubblicata oggi su La Repubblica. Intervista ricca di spunti che si legge tutta d’un fiato.

ARRIGO Sacchi, lei lo conosce bene Ballardini.
«L’ho avuto come giocatore a fine anni ‘70, alla Primavera del Cesena. Mediano, un po’ lento ma ordinato, ragazzo serio, professionista coscienzioso».
Da quando allena, gli è stata spesso accostata l’etichetta di sacchiano. In realtà gioca un calcio molto accorto, non trova?
«Bisogna intendersi. Quando subentri, devi essere elastico, adeguarti ai giocatori che trovi, che non sempre sono quelli che vorresti. In questo Davide, per dire, è più bravo di me».
Che le sembra il suo Bologna?
«Mi pare una squadra organizzata e ordinata, l’ho vista col Milan, col Torino e pure col Napoli. La sensazione è che dia sempre il massimo. Quando un allenatore ottiene questo è bravo. C’è organizzazione e poi un tecnico in gamba non deve dare troppe idee. Ne bastano poche, ma chiare».
Lei Ballardini lo prese con sé al Parma.
«Ero direttore tecnico e lo volli come responsabile del vivaio e della Primavera. Il Parma aveva allora oltre 300 scuole calcio in tutt’Italia. Ma non nasceva un giocatore. Chiesi a Tanzi se fosse un’operazione sociale, se volesse far conoscere il marchio o se l’obiettivo era calcistico. Mi rispose che quest’ultimo era il motivo. Gli dissi: “Dismettiamo tutto, mancano i maestri’. Lui sosteneva che Parma fosse una città ricca, che fosse difficile scoprire talenti. Allora chiamai Zamagna, dal Bologna, l’attuale ds dell’Atalanta, e appunto Ballardini. Ripartimmo. Dopo due anni Davide ci chiese di andare e lo lasciammo partire, ma intanto aveva fatto un lavoro straordinario. E al di là del fatto che nel 2002 vincemmo un titolo Allievi con Carlo Regno in panchina, tirammo fuori alcuni giocatori notevoli, che è poi lo scopo delle giovanili: Pepito Rossi, Cigarini, Dessena. E anche altri. Così fugammo i dubbi di Tanzi».
Torniamo al Bologna e a Ballardini. Come si sopperisce all’addio di Diamanti?
«Col collettivo e con il gioco».
Speriamo. La squadra segna poco, Bianchi fatica, avrebbe bisogno di cross e palloni in area, ma non gliene arrivano. Andare sul fondo, ormai, è dura per tanti, non solo per il Bologna.
«Sul fondo ci si va o con la qualità individuale, ma nel calcio d’oggi con tutti quei raddoppi è sempre più difficile; o con l’azione corale, il gioco. Ma chi è che gioca davvero? Per giocare occorrono tempo, pazienza, cultura. Anni fa ero al Dall’Ara e di fianco a me c’era il maestro Zagnoni, flautista di livello mondiale. Gli chiesi alla fine: se anziché una partita fosse
un concerto, lei che giudizio darebbe? Mi rispose secco: ‘Un concerto da non ascoltare’. La verità è che poche squadre giocano un calcio armonioso».
Dipende dai soldi che sono sempre meno?
«Macchè, non c’entra nulla. È che quella che io chiamo l’armoniosità non te la chiede il pubblico, cui interessa solo vincere, non te la chiede la stampa che spesso si limita alla
parafrasi del risultato, non te la chiedono le società. Discorso vecchio. Noi siamo furbi, ci arrangiamo, da questo punta di vista siamo un Paese ignorante, con poca cultura sportiva, non riconosciamo il merito e neanche l’estetica; proprio noi che siamo stati il Paese dell’estetica. Noi il calcio lo interpretiamo ancora come fossimo al Colosseo, o all’arena, basti dire che “devi morire” resta il coro più urlato negli stadi. Vedo tante partite dei ragazzini e anche lì c’è poco fraseggio, tanti lanci lunghi, tanta paura di perdere, tanta tensione e apprensione. In Spagna se giochi così non scappano solo gli spettatori, si vergognano per primi i genitori. Noi qui abbiamo abiurato l’estetica. Ma se l’estetica è l’obiettivo, la didattica è senza fine, perché vincere non basta, devi convincere. Dunque, se devi convincere, si può sempre migliorare. Una volta Van Basten me lo chiese. ‘Perché agli altri basta vincere e noi dobbiamo sempre fare di più?’. Qualche anno fa l’ho incontrato. Due grandi riviste avevano da poco premiato quel nostro Milan. France Football come la squadra più forte del dopoguerra, World Soccer come quella, fra i club, più forte di sempre. Ecco il motivo, ho detto a Marco>.
Torniamo a Bianchi.
«Certo. Se un bomber non segna, da noi si dice: “Compriamone un altro, più forte”. Mai che si dica: “Proviamo a migliorare il gioco”. Ma il gioco è quello che è la trama in cinematografia, o lo spartito in musica, tutto passa da lì. Dico di più: quando nacque, questo era un gioco d’attacco, che noi abbiamo trasformato invece in uno sport di difesa. Difendere, cioè in qualche modo distruggere, è più facile che costruire».
Lei dal 2010 coordina le nazionali giovanili. Il tempo però non è molto.
«Mica vero, lì dai 14enni sino ai ragazzi di Prandelli cerchiamo di praticare un calcio diverso, totale. Stiamo raccogliendo tanti risultati, negli ultimi due anni le nazionali italiane sono state vicecampioni d’Europa con la maggiore, ma pure con l’Under 21 e l’under 17. Abbiamo istituito un protocollo che sta dando i suoi frutti, 120 gare all’anno a livello internazionale e 4-5 giorni di allenamento ogni mese ci consentono di fare tanta esperienza. Buttiamo gocce di continuo per riempire un barile».
Mica facile cambiare la mentalità.
«Il problema in Italia, non solo nel calcio, è che il confronto non è mai dialettico, ma ideologico ».
I tecnici stranieri forse aiutano. Che giudizio dà di Rudy Garcia?
«Garcia è un allenatore che sta sfidando l’ortodossia. In Italia ci sono quattro squadre che stanno percorrendo nuove strade: la sua Roma, la Fiorentina, la Juve e il Napoli».
Cannavaro ha detto che oggi ai difensori si insegna più ad impostare che a difendere.
«La verità è che oggi si difende diversamente, tutto qui».
Un Claudio Gentile non c’è più, però. E’ d’accordo?
«Oggi sarebbe espulso dopo tre minuti. Non si gioca più in quel modo, una volta il riferimento era solo l’avversario diretto, oggi ci sono anche il pallone e il compagno di squadra. Oggi i primi difensori sono gli attaccanti. Ci si difende con tanti e con tanti si attacca, ma non in Italia. Ci si dovrebbe difendere correndo in avanti, e noi invece corriamo all’indietro ».
Colpa di chi?
«Siamo terrorizzati. L’ambiente è poco competente, isterico, e travagliato dai debiti. Pianificare, in contesti così, diventa impossibile e poi certi allenatori si adeguano facendo il gioco del giaguaro. Io a metà anni ‘70 allenavo l’Igea Marina in serie D e in campo avevo un mio coetaneo, Benini, che aveva giocato in A. Una volta gli sentii dire a un compagno: ‘Qui facciamo cose che in vita mia non ho mai fatto. Questo o è un fenomeno o è un matto’».

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