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Calcio

Monday Night – La vera essenza del calcio a Londra – 20 Giu

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Molti di voi saranno  certamente capitati dalle parti di Londra almeno una volta nella vita: alcuni con la fidanzata, altri con il solito gruppo di amici. Beh, certamente nel primo caso avrete barattato un tour all’Emirates (e ringraziare!) con un lungo pellegrinaggio fra i negozi di Oxford Street, mentre  nel secondo vi sarete spinti sino a Stamford Bridge o al massimo nel Mile End, per un saluto veloce al Vecchio Boleyn. D’altronde si sa, la City è immensa, il tempo è poco ed i mezzi pubblici decisamente costosi. Bisogna scegliere e nonostante  la capitale britannica sia famosa in tutto il mondo  per l’incredibile quantità di squadre, alla fine si finisce sempre per fare il classico giretto turistico. La mia idea in questo articolo è quella di farvi conoscere anche la periferia sportiva più sconosciuta della città. Quella che non alza trofei  e che a malapena ha sfiorato la soffice erbetta della Premier League, ma che nonostante tutto continua a scaldare i cuori di tanti appassionati.

Francamente questo spunto cova dentro di me  da qualche anno, ufficialmente da  quando in una piovosa domenica di Maggio, vidi entrare in un noto pub  su Maple Street  una dozzina di tifosi del Leyton Orient in trepidante attesa per la finalissima dei play-off di League Two (la nostra vecchia C2). Avete capito bene, del Leyton Orient! Da lì sono partito, e spinto dalla curiosità per il calcio “minore” cercherò di raccontarvi la storia delle “sorelle sconosciute”.

FULHAM.

Club&Stadio. Ai più sembrerà normale sentire parlare del Fulham, ma solo perché ha vissuto i suoi anni di platino in concomitanza con l’ultima cavalcata europea bolognese. In realtà la squadra ha sempre pasturato nel limbo delle serie minori. Nessun trofeo e zero gloria. Il vanto principale è sempre stato lo stadio e fidatevi, lo è realmente.

Il Craven Cottage decanta una storia antichissima. Nel  1780, quello che era un terreno boschivo adibito agli sfoghi venatori di Anna Bolena, fu acquistato dal barone William Craven che ne fece il suo personale cottage. Dopo 18 anni di feste a cui parteciparono le più spiccate personalità dell’epoca (da Sir Arthur Doyle a Bulwer –Lytton) la residenza fu distrutta da un potentissimo incendio. Nel 1894 degli emissari del neonato Fulham Football Club andarono sul posto e fecero una proposta al barone: il terreno al club in cambio di una percentuale sui biglietti venduti. Nel 1896 la squadra giocò la sua prima partita di Middlesex Senior Cup con tanto di vendita di tagliandi. Da lì a poco venne costruita la rabbit hutch, una tribuna adibita ad ospitare 250 spettatori. Nel 1905 l’architetto scozzese Archibald Leicth fu incaricato di riprogettare l’impianto e concepì  la famosissima tribuna di Stevenage Road,  quella completamente composta da mattoni  faccia vista di colore rossiccio che tuttora la rende unica.

Nell’ormai  lontano Ottobre del 1938 si verificò la più grande affluenza di pubblico nella storia del Club: circa 50.000 persone(il doppio della capienza attuale) assistettero al derby contro il Milwall, ma si vocifera che fu soltanto una coincidenza  poiché  il match in programma nel vicino Stamford Bridge fu cancellato, spingendo gli appassionati a seguire la squadra bianconera piuttosto che tornare a casa. Pensate che l’illuminazione fu installata solo nel 1962. Andiamo avanti. A seguito del tragico evento di Hillsborough, il governo obbligò tutti i club a rimodernare gli impianti, ma il Fulham non fu economicamente in grado di supportare tale spesa e quando nel 2001 raggiunse la Premier League, dovette trasferirsi temporaneamente a casa del QPR, nell’avverso catino di Loftus Road. Dopo numerose proteste ed un investimento di circa 8 milioni di pounds la squadra tornò a giocare al Cottage solo nel 2004.

Il mio viaggio. Ad onor del vero ero già stato al Craven Cottage in passato, ma mai prendendo la District Line diretta a Wimbledon. Può sembrare soltanto un particolare, ma è un viaggio che consiglio a chiunque voglia recarsi da quelle parti perché dopo Earl’s Court,  la linea metropolitana diventa una sorta di sopraelevata che si snoda fra i tetti delle classiche villette inglesi regalando un panorama quantomeno insolito. La fermata è Putney Bridge ed appena varcati i tornelli vi sembrerà tutto estremamente calmo. C’è un vecchio libraio su Renelagh Gardens attiguo ad un minuscolo pub chiamato “The Eight Bells”. Per arrivare allo stadio è necessario infilarsi in un sottopassaggio pedonale che sbuca direttamente su Bishop’s Park. Il traffico è lontano e per raggiungere l’impianto è sufficiente costeggiare il Tamigi per circa 1000 yards attraversando un classico parco londinese, certamente meno turistico e più “local”. A sinistra il fiume, a destra,  sull’erbetta che pare dipinta da Rembrandt, un sacco di bambini giocano a rugby mentre qualcuno lancia delle noccioline agli ingordi scoiattoli grigi. Alla fine del percorso ci si stampa letteralmente contro la “Riverside stand” e per ammirare la bellezza architettonica dell’impianto bisogna uscire dal parco risalendo su Stevenage Road (esatto, quella dove impera la tribuna coi mattoni faccia vista) per una cinquantina di metri. Lo stadio è perfettamente incastonato nel tessuto urbano di quartiere, tanto che un occhio inesperto potrebbe pensare che sia la villa del più ricco di zona, se non fosse per  lo stemma marmoreo con l’acronimo FFC e per la statua (nemmeno tanto impegnativa poi) di Johnny Haynes, il più grande giocatore del club. La main entrance è qualcosa di utopistico, straordinario. Roba d’altri tempi. Al centro della via c’è lo shop, mentre la biglietteria è aperta esclusivamente a coloro che intendano sottoscrivere l’abbonamento per la prossima stagione. Alla fine della strada tutto sfuma nel quotidiano, esattamente come sulla perpendicolare denominata Creswell Street. Case vittoriane tutte identiche, curate e tranquille. La cosa che ho percepito ripassando da qui, è che questa zona – a differenza di molti altri sobborghi cittadini- non trasuda per niente calcio. Non si respira football. Come se si trattasse solo di un passatempo domenicale tra una partita a tennis ed un picnic al parco.  Prima di abbandonare la zona mi sorgono due dubbi:

1)      Conoscendo la mentalità inglese, dove andrà la gente a bere nel pre partita? Nel piccolo pub posto appena fuori dalla stazione della metro e distante ormai quasi un chilometro? Non credo.

2)      Essendo lo stadio chiuso su tre lati ( Bishop’s Park da una parte, il thames path di fronte e con il Tamigi che scorre parallelo a Stevenage Road) restano solo disponibili le entrate sulla via principale; come diavolo faranno a convogliare 20.000 persone nelle partite di cartello, ospiti compresi?

Sinceramente non lo so, ma mi sono promesso che la prossima volta che tornerò da queste parti sarà solo per andare a vedere una partita, fugando cosi ogni mio dubbio sulla logistica dello stadio più bello del mondo.

BRENTFORD.

Club&Stadio. Il Brentford Football Club nasce nel lontano 1889 con l’obbiettivo di regalare alla squadra canottieri di Brentford un passatempo invernale. La faccio breve: in 127 anni di storia il club non ha mai vinto nulla e l’unico vanto resta quel quinto posto raggiunto nel 1936, finendo davanti alle più quotate rivali cittadine di allora (QPR, Tottenham e Arsenal). Ma anche qua, come nel caso del Cottage, la gloria della squadra si rispecchia solo ed esclusivamente nel fascino del suo impianto.

Il Griffin Park è letteralmente incassato nel il più classico agglomerato urbano inglese. Praticamente fra le case del signor Patterson e della signora Murphy ma non solo; i tetti delle sue tribune appartengono allo spazio gestito dal “LONDON HEATRHOW AIRPORT” e quindi fungono da immensi spazi pubblicitari visibili dall’alto (al momento gestiti dalla Qatar Airways). Ma c’è di più, c’è quello che qualcuno definirebbe l’ombrellino sul Long Drink, o la classica ciliegina sulla torta:  l’impareggiabile presenza di quattro pub ai quattro angoli dello stadio. Una cosa unica in tutta Albione. Come se circondassero la zona. Come se confinassero il mondo del football all’interno ed il resto del mondo fuori.

Non potevo non andarci.

Il mio viaggio. Arrivare al Griffin Park è stato più complicato del previsto. Una volta sceso a Northfield -l’ultima fermata in zona 3 prima che la Piccadilly Line sconfini verso i terminal dell’aeroporto di Heathrow-  sapevo di dover salire sul bus E2 ma non sapevo quando fermarmi. Un simpatico vecchietto mi ha consigliato Windmill. Un altro Half Acre. Nel dubbio sono sceso a Brentford salvo poi tornare indietro per circa 2 km sotto un sole insolitamente rovente. Nonostante la mia esperienza londinese sia praticamente quinquennale, non ero mai stato nel quartiere Hounslow e la fotografia della zona è parecchio contrastante: da una parte ci sono ordinatissimi vialetti con villette a schiera e giardinetti ben accuditi, dall’altra condomini popolari non troppo invitanti. Non so come, ma l’istinto mi ha consigliato la scorciatoia lungo Clifden road e non ha fallito. Dopo circa 300 metri la Brook Road stand sbuca appena sopra i tetti rossastri a mattoncini dell’omonima via e per saggiare questo capolavoro del mimetismo bisogna girare a sinistra su Breamar Road, dove fra le proprietà della famiglia Lower e del signor Hill c’è l’ingresso principale. Roba che se qualche terzino ciabatta un cross (e francamente avrei qualche idea) la palla finisce per distruggere i gerani di Mrs Nutt. Ad un primo impatto lo stadio può sembrare un capannone adibito al parcheggio dei camion. Nuvoloso. Metallico. Ma poi la scritta rosso fuoco “Brentford football club” regala una gioia nel grigiore generale. La biglietteria è chiusa mentre un inserviente dipinge di bianco lo stipite dell’ingresso riservato ai tifosi di casa. Lo shop aperto e vedo uscire un padre con il figlioletto pieno di sportine. I prezzi non sono poi così “Cheap” dal momento che adidas è notoriamente un brand costoso, ma i saldi di fine stagione invogliano qualcuno all’acquisto. Alle mie spalle passa una ragazza con la tuta del club ed il velo in testa; mai vista una cosa del genere in nessun altro posto della City. E i famosi quattro pub?

Allora: guardando frontalmente la main entrance (siamo su Breamar Road) alla mia sinistra c’è il “ The Griffin” (il grifone, logo della birreria Fuller’s è quasi un monopolio locale, per informazione leggere il nome dello stadio). C’è un giovanotto al telefono che sorseggia un drink nel Beer Garden e diversi anziani all’interno che festeggiano qualcosa.

Alla mia destra c’è il “The Princess Royal”. Le finestrone sono oscurate e scorgo immediatamente una serie di scritte inneggianti al club sui tavoli imbullonati vicino all’entrata. Inoltre distinguo parecchi adesivi appiccicati al vicino semaforo e nei piloni dell’illuminazione. I riferimenti al tifo biancorosso sono fin troppo evidenti, e penso proprio che la parte più calda del popolo “Bees” si ritrovi esattamente qui. Andiamo avanti.

Giro su New Road, che altro non è che una  trafficata arteria di scorrimento che circonda parte dello stadio. Una sorta di  “L” rovesciata che ti conduce sino alla parallela di Braemer Road. Qui sono dalla parte opposta  rispetto alla main entrance e alla mia sinistra spadroneggia il “ The new Inn” , certamente il più affascinante dei quattro. Architettura medievale e bandiere della Guinness sventolanti. Sembra quasi la locanda del puledro impennato resa famosa da Tolkien. Alla mia destra, all’angolo con Brook Road, c’è il “ The Royal Oak”. Su due piedi non mi dice molto e vista la posizione credo che sia il pub frequentato dagli “away supporters”.

Il caldo si fa opprimente e necessito di una pinta ; non potendo berne una in ogni pub battezzo  il the new inn. Mi accorgo subito che qualcosa di strano c’è: all’entrata due soggetti mi squadrano da cima a fondo, roba non proprio usuale in una città dove sei semplicemente un numero o forse meno. Il pavimento è di moquette e le pareti sono arredate con vecchi mobili in legno scuro. Con la mente torno per un attimo alla mia vecchia vacanza nel Connacht. Scorgo subito una bellissima sciarpa con una bandiera irlandese che abbraccia quella scozzese sovrastata dalla scritta “friends across the water”. Alla mia destra un quadro commemorativo della schiacciante vittoria irlandese sull’Inghilterra nel 6 nazioni 2007 (43-13). L’accento della barista non è poi cosi familiare, la tv mostra una corsa di purosangue e l’occhio mi cade inevitabilmente sulla copia dell’Irish Indipendent appoggiata sopra al bancone. Ok, sono nel pub della comunità irlandese a Londra. L’interno è quasi casalingo e la birra nemmeno troppo costosa. La cosa che mi più mi stupisce è che chiunque entri chiami la barista per nome: altra cosa per niente usuale da queste parti. Vuol dire che i locali vengono qua, e che probabilmente ci vengono prima di andare al Griffin Park, instaurando in me l’idea che lo spirito di sopravvivenza  del Brentford sia intrecciato indissolubilmente al senso d’appartenenza della gente al proprio quartiere. Ahimè,  una cosa  ormai divenuta impossibile  tra i grandi rifelssi mondiali di Arsenal, Chelsea e Tottenham.

LEYTON ORIENT.

Club&stadio. La squadra  – la seconda più anziana di tutta Londra dopo il Fulham-  vede la luce nel 1881 grazie ad alcuni membri del Glyn Cricket Club. Cambia un paio di nomi (da  Orient football club passa a Clapton Orient) prima di trasformarsi nel 1937 nell’attuale Leyton Orient. Di trionfi non se ne parla nemmeno, anche perché i “the O’s” hanno disputato una sola stagione fra i grandi (1962-‘63) decapitando fra l’altro West Ham, Everton e Manchester United salvo poi retrocedere a fine stagione senza nessuna gloria. Nel 1978 raggiunge un’incredibile semifinale di F.A. Cup ma viene regolata dall’Arsenal con un netto 3 a 0. La storia sportiva termina praticamente qui, mentre quella societaria vede un paio di ribaltoni degni di nota. Nel 1995 balza alla cronaca l’acquisizione del club da parte di Barry Hearn per la simbolica cifra di 5 sterline. Nel 2014 passa in mano all’imprenditore italiano Francesco Becchetti che tenta di proporre un talent show condotto da Simona Ventura, sulla falsa riga del reality “campioni” , ovviamente senza successo. Attualmente la squadra milita in League Two (quarta serie della piramide inglese) e non vi sono segnali di rinascita.

Dal 1937 gioca i suoi incontri casalinghi nel piccolo Brisbane Road ( ridotto attualmente a 9,271 posti), rinominato Matchroom Stadium per evidenti motivi di mera pecunia. Secondo il guru Colin Mitchell l’affluenza massima durante un match del Leyton è stato il derby contro i vicini (quasi coinquilini) del West Ham in un’edizione della F.A. Cup del ’64 dove assistettero all’incontro 34.345 spettatori.

Il mio viaggio. Per arrivare a Leyton non bisogna scervellarsi più di tanto davanti ad una “tube Map”. Basta prendere la Central Line (la rossa) diretta ad Epping e scendere all’omonima fermata. Lo stadio è facilmente raggiungibile a piedi, essendo situato a circa 800 metri dalla stazione. La zona è senza dubbio popolare e poco attraente. C’è gente che beve lattine di birre già alle 10 del mattino, qualcuno mi chiede insistentemente una sigaretta e lo sfondo è costellato da piccoli negozietti figli di una “saudage” da immigrato dell’est Europa.  La prima cosa che ho notato è la gran quantità di ragazzi che indossano polo o cappellini coi martelli incrociati del West Ham, ma d’altronde questo è un antichissimo feudo “claret&blue” sin dai tempi dell’hooliganismo da stadio e la cosa era piuttosto prevedibile. L’Orient -la squadra locale- è sempre stata considerata una sorta di sorella minore dai tifosi Hammers, e probabilmente a causa della riqualificazione del vicino quartiere di Stratford imposta dalle olimpiadi del 2012 (con conseguente innalzamento dei prezzi), si è verificata uno migrazione delle fasce più deboli dell’East Ham verso il borough of Waltham Forest.

L’entrata su Buckingham road non altro è che un mega capannone con tanto di cancello spinato scorrevole che confina incredibilmente con due residence studenteschi, costruiti praticamente a ridosso del corner, proprio dove la tettoia della tribuna s’interrompe prima di ricoprire la curva. Se giriamo invece su Windsor Road per aggirare la curva stessa,  ecco che tornano in voga le classiche villette vittoriane. Una specie di cortina di sicurezza fra il campo e la strada.

Sulla trafficata Brisbane road (parallela di Buckingham road) spunta la Main Entrance. Quelli che sembrano uffici progettati da Le Corbusier  vengono sovrastati dal meraviglioso simbolo del club (due dragoni che arpionano un vecchio pallone) tanto grande da coprire verticalmente l’ampiezza intera dello stabile.  Lo shop è aperto e ben curato. Non ho potuto far a meno di comprare un paio di pantaloncini rossi con viverne nere in basso rilievo. Davanti a me, alla cassa, un nonno con il nipotino acquistano il competo ufficiale della prossima stagione. La cosa che più mi ha colpito? Beh, certamente la community posta di fronte all’entrata principale. La scritta “since 1989” sotto agli ormai famosi rettili alati, sta a sottolineare oltre un ventennio di profonda attività sociale svolta per la comunità del quartiere. Una comunità probabilmente proletaria che si sente legata al suo territorio nonostante l’evidente disagio economico.

Che dire alla fine di questo viaggio?! Fulham, Brentford e Leyton tre quartieri diversi, con tre storie diverse unite da un unico filo conduttore. Quel senso d’appartenenza che ormai va estinguendosi in una Londra in continuo movimento, dove le grandi squadre cambiano stadi come se fossero vestiti ed i soldi del turismo-sportivo incrementano le casse delle società. Non ci saranno coppe e gloria ma sicuramente tanta passione, quella di un nonno ed il suo nipotino. Quella che spero mai possa esser venduta ad uno sponsor in cambio di uno stadio da 50.000 posti!

 

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