Basket
Due chiacchiere con… L’Umiltà di Chiamarsi Minors
Intervista a Carlo Pedrielli, ideatore della pagina L’Umiltà di Chiamarsi Minors
L’Umiltà di Chiamarsi Minors è una delle realtà social più iconiche e ironiche di tutto il panorama italiano. Difficile non sorridere guardando il materiale che, quotidianamente, viene postato tra Instagram e Facebook dalla nota pagina baskettara, conosciuta soprattutto per la vena satirica che si trova dentro a ogni post. Insomma, dai, chi non conosce Chiamarsi Minors? Quello che è meno noto ai più, però, sta dietro. Anzi, chi si trova “dietro” a tutto questo. In fondo, è facile dimenticarsi di chiederselo tra i vari contenuti, ma chi è in realtà l’Umiltà di Chiamarsi Minors?
Ve lo diciamo noi, che abbiamo avuto la possibilità di parlarci a lungo. Scoprendo che dietro a una pagina del genere si nasconde un ragazzone che gioca a basket, che è minors come chiunque lo segua sui social, che, proprio come nel nome della sua pagina, fa dell’umiltà il suo pregio più piacevole, rendendo chiacchere e racconti ancora più interessanti e, come facile immaginare, divertenti.
Vi proponiamo quindi due chiacchiere con Carlo Pedrielli, cuore e mente di Chiamarsi Minors, che ci ha raccontato tutto quello che c’è da sapere sulla sua pagina, che si è trasformata, nel tempo, in un lavoro, senza perdere mai, però, tutta la magia che solo il mondo minors può avere.
Due chiacchiere con L’Umiltà di Chiamarsi Minors: intervista a Carlo Pedrielli
Ciao Carlo, partiamo dal principio: chi è L’Umiltà di Chiamarsi Minors?
«Chiamarsi Minors è una community, prima di tutto. Un ritrovo e un momento di svago per tutti gli appassionati di pallacanestro e non solo, che sanno cosa significa giocare nelle categorie dilettantistiche. Io sono l’ideatore principale, diciamo così: mi chiamo Carlo Pedrielli, ho 36 anni, sono di Bologna e gioco tuttora, in promozione, con la PGS Bellaria. Ma mi hanno accompagnato in questo viaggio lungo 10 anni alcuni fra i miei migliori amici. Col tempo le nostre strade si sono divise, la pagina è diventata un lavoro soltanto per me. Ma il nostro legame è rimasto solidissimo».
Solo un minors potrebbe parlare di… Minors?
«Bella domanda! Credo di sì, però. Non tutti quelli che seguono o tifano la pallacanestro hanno giocato, per cui non tutti avrebbero bene in chiaro le “nostre” dinamiche. È un discorso che può essere valido anche per altri sport di squadra».
Ora sei un’istituzione, ma tutte le cose hanno un principio, un anno 0: dovessi definire la tua “scintilla”?
«Era il dicembre 2013, quindi i tempi del “boom” di Facebook. Mi ricordo che in tantissimi, fra i “ventenni” di allora, avevamo deciso di aprire non soltanto il nostro profilo personale, ma anche una fan page che ognuno di noi gestiva più o meno accuratamente. Anche soltanto per prendere un giro un amico, ad esempio. Queste pagine spesso dopo 2/3 settimane chiudevano, purtroppo io sono ancora qui…».
Secondo te, quali sono state le tappe per arrivare a quello che Chiamarsi Minors è ora?
«La chiave è stata, senza dubbio, il momento in cui i nostri followers hanno iniziato a mandarci i loro contenuti. Questo voleva dire che non eravamo più soltanto noi a cercarli, ma i nostri seguaci cominciavano davvero ad aiutarci. Da questo punto di vista, i primi 8/10 mesi sono stati terrificanti: mi ricordo che, per riuscire a pubblicare qualcosa di decente, facevo anche le 3 di notte davanti al computer… Altro aspetto molto importante è stato il fatto di non focalizzarsi solo sulle notizie che provenivano dalle squadre, ma anche sui giocatori, creando delle sorte di “profili” minors: il tiratore che non fa mai canestro, il play basso che non passa mai la palla, il lungo più largo che alto…».
Il materiale girato dai followers è stato la chiave, quindi. Come vi arriva? La cosa più strana che vi è stata mandata?
«Il materiale arriva in tutti i modi. Su Instagram riceviamo almeno una ventina di direct al giorno, ma anche tramite Facebook o via mail. La cosa più strana? Sicuramente è arrivata lo scorso anno, da una squadra di Promozione riminese: era sponsorizzata da un sexy shop. Al tavolo c’erano le palette per segnalare i falli, la quinta era proprio costituita da un… Fallo. Ma in generale arrivano giornalmente tanti contributi sempre molto validi».
E coi “piani più alti”, cioè con il mondo del basket non minors, come sono i rapporti?
«Nel 2022 abbiamo collaborato con Lega Basket, siamo stati presenti sia alle finali scudetto che a quelle di Coppa Italia di Pesaro. Sicuramente è stata una bellissima esperienza. Con LNP ci siamo scritti, ma al momento non siamo ancora riusciti a imbastire una collaborazione, ci sarà modo di poterlo fare in futuro. Ciò consolida comunque l’idea che possiamo anche collaborare con federazioni o leghe di pallacanestro italiane di alto livello. Al momento stiamo iniziando una collaborazione con un’altra federazione, ma per adesso la tengo per me…»
Ma in cosa consiste il “segreto” minors? Cos’ha questo mondo che chi non ne fa parte non può capire?
«Diciamo che non coinvolge solo il basket, ma tutti gli sport di squadra a livello dilettantistico dove si vive una vita di spogliatoio. Fermarsi dopo allenamento a mangiare le paste e bere due birre il mercoledì sera, una chat di squadra dove ogni giorno arrivano una media di 100 messaggi, le trasferte di 100 km tutti insieme in un’auto scalcagnata in 5 per dividersi la benzina… Quelle dinamiche che non vive solo la pallacanestro, ma può capire solo chi fa uno sport di squadra a livello amatoriale: sono aspetti difficili da insegnare o inculcare a chi non fa sport. La vita da spogliatoio o ce l’hai o non ce l’hai».
Parliamo un momento dell’evento minors per eccellenza di Bologna, atteso ogni anno con trepidazione da tutti gli appassionati di basket bolognesi e non solo: i playground del Torneo dei Giardini Margherita.
«Come Chiamarsi Minors partecipiamo da diversi anni al Torneo dei Giardini. L’idea non è partita da me, ma dagli altri ragazzi coi quali ho collaborato e continuo a collaborare. Anzi: inizialmente vedevo la vetrina dei Gardens come non troppo coerente con la pagina, perché i giocatori sono tutti professionisti o semiprofessionisti: di facciata non aveva troppo a che fare con quello che noi proponiamo quotidianamente. Ora, invece, il momento dei Gardens è bellissimo soprattutto perché tutti noi che abbiamo fatto parte dello staff in questi anni ci troviamo per passare serate estive fra di noi, cosa che durante l’anno non siamo capaci di fare per vari motivi. Le partite della nostra squadra ai Giardini rappresentano quel mese in cui riusciamo finalmente a rivederci, parlando di basket e delle nostre vite. I ragazzi che giocano per la nostra squadra sono un gruppo fantastico, è un piacere passare tempo con loro».
Ultima domanda, dove forse è più difficile fare ironia: il tuo punto di vista sullo stato dell’arte del basket in Italia?
«Lo stato della pallacanestro attuale è stagnante. Siamo rimasti a 10-15 anni fa, mentre altre discipline stanno continuando a esprimersi ad ottimi livelli sia al femminile che al maschile: la pallavolo, per esempio, ma anche il tennis, che pur non essendo uno sport di squadra sta vivendo un boom di tesseramenti. Noi siamo fermi: la Nazionale ha raggiunto l’ultimo vero successo nel 2004, con l’argento di Atene. Al momento è difficile vedere una luce in tutto questo, nonostante ci siano giovani prospetti che fanno ben sperare. Il problema non riguarda solo le serie maggiori, cioè il professionismo, ma anche il mondo minors. Credo che sia la Nazionale a dover trainare tutto il movimento: speriamo che nei prossimi anni si possa riuscire a combattere per una medaglia come vent’anni fa. Per quanto mi riguarda, al momento servirebbe una rifondazione, soprattutto nei ruoli principali legati alla Federazione».
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