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Tutto calcio che Cola #51: Oriundi, cugini d’Italia – 24 mar

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Franco VázquezÉder, chiamati dal CT Conte per l’imminente doppio impegno della Nazionale (qualificazione agli Europei contro la Bulgaria e amichevole con l’Inghilterra) sono le novità di cui più si parla in questi giorni. Dovrebbe sorprendere di più il terzo nome nuovo espresso dal mister, Mirko Valdifiori, regista dell’Empoli rivelazione che tutta Italia ha scoperto adesso che va per i trent’anni. Invece i nomi d’attualità sono Vázquez e Éder, ed il perché è presto detto: argentino il primo, brasiliano il secondo, riaccendono le vecchie polemiche sull’utilizzo o meno in Nazionale di atleti non nati sul nostro suolo. E anche se chiaramente a parole tutti fanno intendere che si tratta di una questione morale, viene logico pensare che certe prese di posizione etiche arrivino quando non si parla di campioni conclamati, bensì di giocatori di cui effettivamente, per qualcuno, si potrebbe fare a meno. Opinioni, nient’altro che opinioni, che chiaramente non coincidono con le idee di un CT che grazie all’esterofilia dei nostri club ha sempre meno materiale umano a cui attingere. Eppure, se guardiamo la storia della nostra Nazionale di calcio, la presenza degli “oriundi” ha sempre caratterizzato la maglia azzurra, risultando decisiva peraltro in ognuno dei nostri quattro successi al Mondiale di calcio.

Il primo “straniero” a vestire la maglia azzurra fu l’argentino di Mendoza Eugenio Mosso, passato alle cronache come “Mosso III” per distinguerlo dagli altri tre fratelli, tutti calciatori. I fratelli Mosso vestirono la maglia del Torino, e per Eugenio – attaccante – la stagione di grazia fu quella del 1913-1914: i suoi 23 gol in 14 gare non valsero al Torino la fase finale per lo Scudetto, ma gli permisero di vestire la maglia azzurra in un’amichevole contro la Svizzera datata 5 aprile 1914 e conclusa in parità per 1 a 1. 
Per trovare un altro oriundo bisogna andare al 1920: in quegli anni imperversava nel nostro campionato l’italo-svizzero Ermanno Aebi, primo campione vero dell’Internazionale e che era cresciuto proprio tra Neuchâtel dov’era nato il padre e Milano, dove invece era nata la madre e dove viveva la famiglia. Eccellente goleador e uomo squadra, vinse due Scudetti con i nerazzurri e giocò due gare con l’Italia nel 1920, segnando 3 reti nel rotondo successo per 9 a 4 contro la Francia. Il suo posto, l’anno successivo, fu preso da Giovanni “Johnny” Moscardini, centravanti rivelazione della Lucchese cui le ferite riportate a Caporetto durante la guerra non avevano impedito di diventare un bomber temibile e rispettato: benché il suo nome non sia tra i più noti alle cronache, le 7 reti segnate in 9 gare tra il 1921 e il 1925 la dicono lunga sulla sua efficacia sotto porta, e solo il livello dilettantistico del calcio dell’epoca gli impedì di vestire la maglia di una “grande”. Il primo grande nome però è quello dell’argentino Julio Libonatti, campione assoluto del Torino dove era noto sia per gli assist che recapitava a profusione ai compagni (fatto insolito per un centravanti dell’epoca) sia per la letale precisione sotto porta: le sue 150 reti gli permettono ancora oggi di essere il secondo miglior marcatore granata di sempre. Anche in Nazionale fu a dir poco fenomenale, segnando 15 reti in 17 partite dopo che con l’Argentina, non ancora ventenne, aveva vinto anche una Copa Amèrica. 

Quando la Coppa Rimet divenne una realtà, l’Italia non partecipò alla prima edizione in Uruguay, ma ottenne di organizzare la seconda nel 1934: in vista di quel torneo, nonostante Mussolini non amasse né il football né gli stranieri, si ebbe la maggior affluenza di giocatori sudamericani con avi italiani, giunti a rinforzare una Nazionale che doveva vincere anche per volere di Regime. Si può ben dire che gli ideali fascisti nel calcio si piegarono all’esigenza di vincere, e furono molti i giocatori che Vittorio Pozzo provò. Attila Sallustro, nato in Paraguay ma cresciuto a Napoli, fu dei campani il primo grande campione ed il primo a raggiungere la Nazionale, dove giocò 2 gare e segnò una rete prima di essere soppiantato dal celebre Meazza. A Napoli rimase comunque un idolo, tanto che una volta che investì una persona per sbaglio questa, ancora dolorante, si affrettò a chiedergli scusa. Un altro che si mise in mostra fu lo straordinariamente elegante interno juventino Renato Cesarini: in azzurro solo 3 reti, ma una di queste, all’ultimo minuto, fece nascere il modo di dire “zona Cesarini”, che si utilizza ancora oggi e che esula persino dal calcio. Uno che avrebbe potuto far parte dell’Italia ai Mondiali era il tosto centrocampista brasiliano Nininho, noto da noi come Octavio Fantoni: si disimpegnava nella Lazio, giocò una gara qualche mese prima del torneo ma poi fu escluso dalla lista definitiva. Morì l’anno dopo, a 28 anni, per una setticemia giunta per un infortunio al naso. Pozzo provò anche i due interni del fenomenale Bologna capace di vincere titoli su titoli negli anni ’30: erano gli uruguaiani Raffaele Sansone e Francisco Fedullo, ma per un motivo o per l’altro furono solo delle comparse in maglia azzurra nonostante uno spessore tecnico-tattico innegabile.
La Nazionale che si laureò Campione del Mondo nel 1934, comunque, aveva i suoi bei “oriundi”: Luis Monti, argentino e già finalista con la maglia albi-celeste nel 1930, era il centromediano, mentre Raimundo “Mumo” Orsi, ala sublime della Juventus e tra le prime a concludere in porta oltre che tentare il cross, decise la finale con un gol. Orsi non segnava raramente, anzi: le sue 13 reti azzurre lo rendono l’oriundo capace di fare più gol con la maglia dell’Italia. Alla vittoria contribuì anche Enrique Guaita, eccezionale attaccante esterno che in semifinale segnò il gol-vittoria contro l’Austria e in finale servì a Schiavio il gol del trionfo. Idolo della Roma, fuggì in una notte dall’Italia per timore della leva militare e morì in povertà nella terra dalla quale era venuto. Completavano la rosa campione anche Anfilogino Guarisi, detto “Filò”, brasiliano, e l’argentino Atilio Demarìa, mezzala dell’Ambrosiana-Inter.

Nel bis Mondiale del 1938 l’Italia presentò un solo “oriundo”, il fantastico interno del Bologna Michele Andreolo, a riprova di un calcio che era cresciuto e che negli anni aveva scartato dall’azzurro dopo averli provati giocatori come Roberto Porta (nipote di Abdòn Porte e futuro bomber in patria), Ernesto Mascheroni (Campione del Mondo nel 1930 con l’Uruguay), l’uruguaiano dell’Inter Ricardo Faccio ed il fantastico argentino della Roma Alejandro Scopelli, fuggito nella notte insieme a Guaita nel 1935. In azzurro ci fu spazio anche per Hèctor Puricelli (1939, una gara e un gol) mentre dall’immediato dopoguerra al 1962 furono ancora una volta numerosi gli stranieri tornati nel Paese degli avi per soldi e per vestire la maglia azzurra: i più noti furono ancora uruguaiani, i campioni del mondo del 1950 Schiaffino e Ghiggia (“l’uomo che zittì il Maracanà”) ma vi fu spazio anche per l’argentino dell’Inter Angelillo (33 reti in 33 gare in un campionato), il sudafricano Eddie Firmani (3 gare, 2 reti, poi allenatore di Pelé in America) e i “fiorentini” Lojacono e Montuori, quest’ultimo unico oriundo-cileno della storia e scoperto da un prete tifoso viola di stanza a Santiago. La fallimentare esperienza dei Mondiali di Cile nel 1962, dove l’Italia si presentò con ben quattro “stranieri”, sancì la fine degli oriundi in azzurro: grossolanamente infatti la stampa addossò la colpa della precoce eliminazione per mano del Cile ai quattro, ritenendoli “incapaci di avere lo stesso amore per l’azzurro che può avere chi è nato in Italia”. Fu così che Josè Altafini (raffinata mezzala del Milan), Omar Sivori (addirittura Pallone d’Oro l’anno precedente), Humbèrto Maschio e Angelo Sormani furono gli ultimi oriundi per un decennio.

Si deve attendere infatti il 1972 per rivedere un “parzialmente italiano” in maglia azzurra: l’onore tocca a Giuseppe “Pino” Wilson, figlio di una napoletana e di un soldato inglese di stanza in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e nato a Darlington. Nella Lazio è il capitano dello Scudetto, suo compagno è Giorgio Chinaglia: cresciuto in Galles, “Long John” è però nato in Italia da genitori italiani, per cui non risulta essere un oriundo.
Piuttosto l’anno dopo in cui Wilson esce dal giro azzurro ecco che fa il suo esordio il focoso terzino Claudio Gentile: sarà a lungo bandiera della Juventus e anche dell’Italia, con cui vince il Mondiale del 1982 in cui è celebre la sua marcatura ai limiti del regolamento ma efficacissima su Diego Armando Maradona. Con le sue 71 presenze spalmate nell’arco di nove anni è l’oriundo più presente di sempre in maglia azzurra: oriundo, si, perché nonostante il nome italianissimo Gentile è nato a Tripoli, in Libia, ed è per questo che i compagni lo chiamano “Gheddafi”. Negli anni ’80 e ’90 il fenomeno degli oriundi si dirada: ai tempi di Sacchi s’intravede il metronomo del Parma Daniele Zoratto, nato in Lussemburgo, mentre nell’Italia di Lippi che vince a sorpresa i Mondiali del 2006 ci sono Mauro Camoranesi e Simone Perrotta: il primo, argentino, è giunto giovanissimo in Italia nel Verona per poi esplodere nella Juventus; il secondo è nato in Inghilterra, a Ashton-under-Lyne, città che ha dato i natali anche ai campioni inglesi del 1966 Jimmy Armfield e Geoff Hurst. Ad ognuno dei suoi cittadini campioni del mondo la piccola località inglese ha dedicato una statua, Perrotta compreso quindi.

Ed eccoci ai giorni nostri: la globalizzazione ha portato a vestire l’azzurro diversi giocatori non nati in Italia. In pochi a dire la verità hanno lasciato il segno: Cristian Ledesma e Ezequiel Schelotto hanno messo insieme appena una presenza, così come il brasiliano Amauri, al centro all’epoca di un vero caso mediatico. Pablo Osvaldo si è eclissato per via di un carattere non facile pur se in possesso di qualità tecniche indiscutibili, Thiago Motta ha messo insieme le sue partite, ma raramente ha inciso, mentre Gabriel Paletta ha deluso (un po’ come tutta la squadra però) all’ultimo Mondiale in Brasile. L’ultimo “straniero d’Italia” prima di Vázquez e Éder? Roberto Soriano, nato in Germania e cresciuto nel Bayern Monaco ma poi esploso nella Sampdoria.

Quella tra l’Italia e i suoi “figli di ritorno”, dunque, è una storia lunga e che spesso ha portato fortuna: c’erano oriundi in ognuna delle spedizioni mondiali vincitrici, e anche se in altre occasioni certi campioni hanno deluso la sensazione è che come sempre sia il campo, più delle dietrologie, a dare le migliori risposte. Quello in cui viviamo è un mondo ormai globalizzato, dove non è strano vedere ragazzi nati in Ghana (Balotelli) o da genitori nigeriani (Ogbonna) vestire la maglia dell’Italia: del resto anche la Germania vincitrice dei Mondiali scorsi ha schierato il tunisino Khedira, il turco Özil e il polacco Klose, mentre l’algerino Zidane è addirittura, per molti, il miglior calciatore francese di sempre. I confini, del resto, sono soltanto linee immaginarie tracciate dagli uomini su vecchi fogli di carta. Linee che il gioco del calcio rende sempre più facili da superare.

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