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REPUBBLICA: “Bologna ha dimenticato il doppio passo di Biavati” – 11 giugno

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Proponiamo da Repubblica, un altro interessantissimo articolo di Simone Monari con una intervista alla figlia del Campione rossoblù Amedeo Biavati.

 

Del percorso della memoria compiuto l’altra sera lungo i vialetti della Certosa, fra i sepolcri degli antichi campioni rossoblù, Daniela Biavati, figlia del mitico Amedeo, l’ha saputo dai giornali. «Mi sarebbe piaciuto che mi avessero invitata, ma sono egualmente felice che l’iniziativa sia riuscita bene, come ho letto. Coltivare la memoria è importante, o meglio, lo sarebbe. Questa città, per non parlare del Bologna, l’ha fatto di rado».

 

E’ l’ora dell’amarezza, più che del livore. «Ma cosa vuole, mio padre non lo tennero neanche in società. Per lavorare dovette andare a Manduria, vicino a Taranto, e anche in Libia. Non c’è una strada che lo ricordi, qui. E durante il centenario del club, lì in centro, mi pare attorno a vicolo dei Ranocchi, gli avevano intitolato una via con un cartello di cartone. Di cartone, capisce che miseria?».

Daniela ha 59 anni, in parte vissuti a Milano, e ha avuto un’azienda di accessori di moda. E’ la figlia che Biavati ebbe dalla compagna di una vita, Annita. I due si conobbero al Littoriale, lei faceva atletica, lui era già notissimo. Solo che entrambi erano anche sposati e quelli, gli anni ’30 e ‘40, come mostrerà poi, nei ‘50, pure la vicenda di Coppi e della Dama Bianca, erano altri tempi.

«Noi vivevamo in San Vitale, mia mamma aveva sposato un playboy, ma durò pochissimo. Papà con sua moglie abitava a Porta d’Azeglio. Ho tante foto dei miei insieme, anche in Libia, lui era tenerissimo». La signora Biavati, scomparsa anni fa, sapeva. In silenzio, tollerava. «Non era semplice come oggi, ma con Franco, il mio fratellastro, ho un ottimo rapporto. E da 5-6 anni ho ottenuto di poter usare solo il cognome di mio padre».

Proprietaria dell’omonimo ristorante caffè in piazza di Porta Saragozza, fra un tortellino e un filetto, apre il libro dei ricordi. E per parlare di “Medeo”, uno dei tre campioni del mondo con la maglia rossoblù (gli altri due sono Schiavio, bolognese pure lui e l’oriundo Andreolo), parte da Vangelis Moras, il greco che giocò qui dal 2007 al 2011. «Se il mio ristorante ha oggi tanti cimeli e ricordi di mio padre e di quel Bologna, il merito è suo. Arrivò con un’amica, che gli raccontò di chi ero figlia, e quando lui fece quella faccia lì, e capii che non ne sapeva nulla, beh, a quel punto cambiai l’arredamento».

Oggi ci sono biglietti da visita personalizzati, menù e tovaglie rossoblù. Entrando, sulla destra, compare la pagina intera che la Gazzetta dedicò al ricordo di Biavati il 24 aprile del ‘79, due giorni dopo la morte. Un lungo articolo di Raffaele Dalla Vite, un ricordo di Angelo Rovelli, e poi il disegno del famoso passo doppio, che lo rese prima celebre, poi immortale. Perché quella locuzione si usa ancora oggi, 65 anni dopo il suo ritiro dal calcio. E pensare che Biavati aveva i piedi piatti.

«Gli hanno dedicato appena un centro sportivo a Corticella, stop. Ma non ce l’ho con la città, perché la gente gli ha voluto un gran bene. Qui a fianco c’è il campo della Salus e non immagina quanti padri vengono coi loro figli, anche piccoli, a raccontare le gesta di quel Bologna. Sono gli amministratori ad averlo dimenticato, perché qui va così: magari si celebrano i grandi del jazz, tutti stranieri, e ci si dimentica dei bolognesi. Non ho nulla contro il jazz, anzi lo amo, ma insomma, mi sono spiegata. Ho girato il mondo, Biavati lo conoscevano tutti. Mia madre andò in Inghilterra nel ‘66, per i Mondiali, e c’era dappertutto la famosa cartolina di Medeo con Bulgarelli. Con Stefano, il figlio di Giacomo, ci sentiamo spesso, c’è un bel rapporto».

Da allenatore, Biavati ebbe poca fortuna. «Può darsi non fosse bravo, però Bulgarelli lo scoprì lui. Di sicuro era un po’ duro, se un bimbo era scarso glielo diceva, oi cinno, ripeteva spesso, ma non sa quanti clienti ho che sono stati suoi allievi e tutti ne hanno un ricordo splendido. Viveva per il calcio, per il Bologna, anche se a casa di pallone non parlava mai». Fu anche un personaggio, ma a suo modo. «Gli proposero di fare un Carosello per un dentifricio, in tv, perché aveva quel sorriso solare che pareva stampato in viso. Allenava già i ragazzini, ci pensò, poi disse di no. E perché? Perché i suoi cinni avrebbero pensato che lo faceva per soldi, e un allenatore non poteva ragionare così. Capito com’era Medeo?».

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