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Il calcio unisce, il razzismo separa: la storia di Arthur Wharton

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Il deprecabile attacco razzista sul web di cui è stato vittima Adam Masina, terzino del futuro del calcio rossoblu e nazionale, mi spinge a scrivere questa breve quanto significativa storia d’integrazione, una lezione che il calcio ha imparato oltre un secolo fa e che la storia dell’umanità dovrebbe peraltro avere già reso chiara a tutti. La triste storia, a lungo dimenticata, del primo calciatore di colore professionista.


 

Il mondo del football inglese scoprì che anche i neri potevano praticare questo sport durante l’edizione 1886/1887 della FA Cup, all’epoca l’unico trofeo calcistico al mondo. Nella porta del Preston North End, ambiziosa squadra del Lancashire che per anni si era battuta a favore del professionismo, spiccava infatti l’inusuale figura di Arthur Wharton, eccentrico quanto agile portiere di colore. Non si trattava del primo colored visto sul rettangolo verde: prima di lui, infatti, gli appassionati britannici avevano potuto ammirare il difensore scozzese, ma di madre guyanese, Andrew Watson, colonna della Scozia che a lungo aveva inflitto batoste agli inglesi e primo calciatore di colore impegnato a livello internazionale. Wharton riuscì comunque ad entrare nella storia per essere il primo giocatore professionista dalla pelle nera, un risultato per niente scontato in una società classista e razzista come quella dell’Inghilterra vittoriana.

Nato in Ghana, allora colonia britannica nota con il nome di Gold Coast, Arthur era figlio di un uomo per metà inglese e per metà grenadino (altra colonia dell’Impero) e di una principessa della famiglia reale Fanti Akan. Arrivato giovanissimo nella patria del padre per diventare missionario metodista, si era ben presto dimostrato eccezionale talento nello sport, tanto che nel giro di pochi anni gli studi erano stati messi prima in secondo piano e poi abbandonati. Del resto, con la struttura fisica che aveva, Wharton aveva soltanto l’imbarazzo della scelta su quale disciplina praticare: buon giocatore di rugby, cricket e tennis, buonissimo ciclista (vinse un importante corsa tra Preston e Blackburn), si distingueva soprattutto nella corsa. Nel 1886, poco più che ventenne, fece registrare il record mondiale sulle 100 yarde (circa 91 metri) percorrendo la distanza in appena 10 secondi, un tempo che ancora oggi sarebbe più che competitivo, durante l’annuale manifestazione della AAA.

Sorprendentemente, però, questo straordinario atleta a 360° decise di dedicarsi al football, che proprio in quegli anni stava prendendosi l’attenzione nazionale e si preparava a sostituire il cricket come “sport degli inglesi”. La vittoriosa campagna a favore del professionismo iniziata dal Preston North End aveva dato i suoi frutti, e dimenticato il sud del Paese, ancora legato a saldi quanto insostenibili valori dilettantistici, “the beautiful game” era protagonista soprattutto nel nord d’Inghilterra. Fu la ricerca di fama nazionale, dunque, oltre che di denaro sonante, a scegliere per Arthur Wharton, che però in quella che si apprestava a diventare la squadra più forte di tutto il Regno Unito entrò con un semplice contratto da amateur, che prevedeva dunque soltanto generosi rimborsi spese. Poco male, sarebbe bastato mostrare al mondo del calcio il proprio valore, esattamente come Arthur aveva sempre fatto facendosi benvolere in ogni sport praticato, abbattendo il razzismo con il carattere eccentrico di cui era in possesso, forte ma generoso. Il giovane ghanese si accorse però presto che il calcio, con le sue folle oceaniche, attirava anche persone poco raccomandabili, che si sentivano padrone della squadra tifata e dei suoi giocatori, che ne pretendevano il tempo, l’attenzione. Persone che, in una società già fortemente razzista come quella dell’età vittoriana, riuscivano a dare il peggio di se senza freni. 

A nulla valse la considerazione di alcuni esperti, che addirittura preconizzarono un impensabile convocazione in una Nazionale che ancora dava spazio a giocatori bravi ed altri, semplicemente, raccomandati. Inutili furono le ottime prestazioni fornite durante le difficili vittorie in terra scozzese, contro ottime squadre come Queen’s Park e Renton, che contribuirono all’approdo, per la prima volta nella storia, del Preston North End alla semifinale della FA Cup. Ancor meno servì l’atteggiamento di Wharton, che mise da parte il carattere orgoglioso che lo contraddistingueva e acconsentì a divertire il pubblico con gesti da giullare come arrampicarsi sulla traversa o il mettersi, quando il pallone era lontano, a compiere capriole. In una gara alcuni presenti testimoniarono persino di una parata mai più vista: bloccato un tiro con le gambe, Darkie, com’era stato rinominato, si sollevò sopra la traversa con le braccia per evitare la carica di ben tre avversari che intendevano spingerlo in porta insieme al pallone.

Quando il Preston North End, sfiancato da una serie di impegni ravvicinati e privo del capitano e leader difensivo Nick Ross – universalmente riconosciuto come il miglior calciatore dell’epoca – cadde in semifinale contro il West Bromwich Albion, per la parte più becera del pubblico e della stampa fu evidente qualcosa assolutamente impossibile da provare: i neri non erano fatti per giocare a football. Piccato da quello che considerò un atto di razzismo, deciso a non fungere da capro espiatorio o da bersaglio, Wharton lasciò il calcio per tornare all’atletica, effettuando un ritorno qualche anno dopo all’indomani della nascita della Football League. La musica, però, non era affatto cambiata: nonostante indubbie qualità atletiche, il primo calciatore colored a giocare da professionista (firmò un contratto con il Rotherham nel 1889, pur non giocando che alcune amichevoli) non trovò mai spazio nelle varie squadre di cui indossò la maglia, che ne limitarono la presenza a mera curiosità. 

E chissà se la delusione per una carriera che avrebbe potuto essere grande, e che forse non lo fu unicamente per il colore della pelle, portò Darkie Wharton a bere sempre più spesso fino a diventare un alcolista. Certo è che questo male, piuttosto comune nella società inglese dei primi anni del XX° secolo, lo ridusse in un pessimo stato di salute in breve tempo. Costretto al ritiro, il grande atleta si ritrovò a lavorare in miniera, dimenticato da un football che andava avanti sempre più velocemente. Morì nell’inverno del 1930, quando aveva compiuto da poco 55 anni: solo, povero, alcolizzato e malato di sifilide. Sepolto in una tomba senza nome, fu dimenticato dal mondo del calcio e riscoperto soltanto nel 1997, quando gli attivisti della campagna antirazzista “Football Unites, Racism Divides” (che da il titolo a questo articolo) riportarono all’attenzione del mondo la storia di questo fantastico quanto sfortunato calciatore. Da allora Arthur Wharton, cui la FA ha dedicato una statua e la FIFA un busto, che campeggia nel suo quartier generale, è il simbolo della lotta al razzismo nel calcio, uno sport nato per unire e non per dividere. Lo stesso fondamento su cui si basa il nostro sito e su cui si dovrebbe basare qualsiasi società abbia l’ambizione di sentirsi definita civile: in eterna memoria del primo calciatore di colore capace di giocare da professionista e vittima di tempi a cui mai, per nessun motivo, si dovrà più tornare.


Arthur Wharton (Jamestown, 28/10/1865 – Edington, 13/12/1930) è stato un calciatore per numerose squadre inglesi: Preston North End, Rotherham Town, Sheffield United, Stalybridge Rovers, Ashton North End e Stockport County. Nel corso della carriera ha giocato prevalentemente come portiere, anche se nel corso dell’esperienza a Stalybridge disputò alcune gare come ala destra, segnando anche un goal. Sarà uno dei protagonisti del mio primo libro, “Pionieri del football – Storie di calcio vittoriano”.

Disegno di Sara Provasi

 

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