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Calcio

Christmas Tale – Natale 1942

Natale 1942 – Una racconto natalizio della rubrica “Christmas Tale”

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Livorno Domenica 27 dicembre 1942

Antioco carissimo,

perdonami se solo ora riesco a stendere qualche riga, ma ultimamente il tempo è sempre scarso. Inoltre qui gli attacchi si fanno sempre più numerosi e dobbiamo recarci nei rifugi, ora attaccano anche Livorno. Hanno provato a bombardare il porto, non so con quali danni, è difficile riuscire ad avere informazioni, sai non bisogna alimentare il catastrofismo…

Quindici giorni fa eravamo a Genova, è venuto anche a trovarmi mio cugino, mi ha fatto conoscere il suo figlio piccolo. A Marassi il Genova ci ha battuto nettamente, mi sarebbe piaciuto giocare contro Sotgiu, ma proprio in quell’occasione non lo hanno schierato. È venuto a salutarmi negli spogliatoi prima dell’incontro, si vedeva che ci teneva anche lui a quella partita. Ha precisato che aveva avuto una noia al polpaccio destro in settimana, ma io non ci credo, secondo me avrebbe giocato anche con una gamba sola.

C’era con lui Francesco Servetto, te lo ricordi? Se non ricordo male avete giocato insieme nella San Giorgio quando io ero ancora nella squadra ragazzi. Mi spiace per lui, quel ragazzo ha talento, ma inspiegabilmente continua a giocare nella squadra riserve.

Ti ringrazio per i complimenti che mi hai fatto nella tua ultima, sinceramente quella rete di tacco all’Ambrosiana-Inter non so neppure io come sono riuscito a realizzarla. I miei compagni mi hanno sfottuto ed hanno riso di me per una settimana, in allenamento a turno provavano il colpo ed era un gran ridere, anche l’allenatore Fiorentini pur distaccato, pareva godere di quel clima. Tutta questa atmosfera stempera perlomeno in parte la preoccupazione.

C’è chi dice che anche noi calciatori a fine campionato potremmo finire sotto le armi. Non sai quanto mi mancano il campo Dux e le avventurose trasferte in piroscafo con la San Giorgio. Se dovessi incontrare il nostro vecchio presidente Brandolini, salutalo per me…

***

“Renato fai presto, sai che il sig. Fiorentini non tollera ritardi ed il treno per Firenze parte tra meno di un’ora”.

“Arrivo Enrico, sto terminando di scrivere una lettera” Enrico gli posò la mano su una spalla e lo esortò a scrivere in un altro momento. I due giovani calciatori erano arrivati entrambi al Livorno in quella calda estate del 1942 ed erano diventati subito amici e dividevano la camera d’albergo.

“Mio caro Antioco, quanto dovrai ancora attendere questa mia lettera”. Disse fra se, mentre riponeva il foglio in un quaderno perché non si rovinasse. Scese le scale dell’albergo in tutta fretta, con il bagaglio personale in mano ed il giaccone sul braccio.

Mentre in compagnia del compagno di squadra Enrico Eschini si avviava verso la stazione, Renato Raccis capì che la fretta era cattiva consigliera, indossò subito il giaccone, quella mattina a Livorno faceva molto freddo, e non era il caso di ammalarsi. La sua squadra andava a mille, gli amaranto livornesi infatti erano in testa alla classifica del campionato di Serie A, il fortissimo Torino di Ferruccio Novo, dopo esser stato sconfitto all’inizio del torneo dalla sua squadra, si era rifatto minaccioso e li incalzava da vicino, ma ai giovani amaranto tutto questo pareva non dovesse impensierirli più di tanto, forse i pensieri più ricorrenti erano indirizzati alla guerra, quella maledetta guerra che doveva durare una manciata di settimane e che invece, dopo due anni, pareva inviare lugubri segnali di sciagure future. Le città cominciavano ad essere colpite da bombardamenti sempre più pesanti, nonostante tutto la gente accorreva ancora ad assistere agli incontri ed il regime faceva leva anche sulla passione degli italiani per il calcio per tentare di stemperare le tensioni sociali. Questo era anche il motivo che teneva i calciatori lontani dalle divise delle forze armate, ma chissà quanto sarebbe durato.

“A chi scrivevi con tanto trasporto? Qualche bella ragazza che aspetta il suo brunetto in Sardegna?” disse Enrico.

“No, ma quale ragazza, scrivevo ad un mio ex compagno della San Giorgio, mi ha cercato tempo fa ed ancora non avevo trovato modo di rispondere. Loro sono stati sfollati in un paesino dell’interno, anche in Sardegna le bombe hanno fatto molti danni” sospirò Renato.

“Sei preoccupato per i tuoi parenti?”.

“Sinceramente avrei gradito di poter passare il Natale con loro, ma come si fa? Ci sono le gare di campionato e poi le navi non partono. Fortunatamente loro sono ritornati a Mandas, il paese dove sono nato, lì sono al sicuro”.

“Se ti consola anche io avrei voluto passare del tempo con la mia famiglia, ma come vedi la Società non è dello stesso parere. Dai, facciamo presto, altrimenti il signor Ivo chi lo sente?” incalzò Enrico, e subito affrettarono il passo che in meno di dieci minuti si trovarono dinanzi alla stazione, ingoiati tra il fluire dei passeggeri in partenza e di rientro che affollavano gli ingressi in direzione ed in uscita dai binari.

“Ecco il treno” disse Enrico mentre lo indicava con la mano. Subito da un finestrino si affacciò Mario Stua “Siamo qui, fate presto”.

Una volta a bordo occuparono i posti tenuti loro da alcuni colleghi “Renato, stai sempre a dormire?” disse scherzosamente il giovane Teresio Piana.

“Io posso anche dormire, tanto sulla fascia ci corri tu” gli rispose divertito Raccis. Piana era una formidabile ala, instancabile nelle sue continue discese lungo la linea laterale del campo.

“Allora Renato, glielo fai il regalino a Griffanti? Non vorrai essere scortese proprio a Natale?” disse Porthus Silingardi mentre con il piede imitava la mia rete di tacco a Caimo. “O magari ci pensa Enrico” riprese mentre idealmente colpiva di testa un pallone.

“Attenti a Valcareggi e Gei piuttosto” rimbrottò il giovane Enrico col sorriso sulle labbra. Renato Raccis ed Enrico Eschini, essendo tra i più giovani della rosa labronica, erano spesso fatti oggetto degli affettuosi sfottò da parte dei compagni più grandi.

Intanto il treno era in viaggio ed attraversava le amene campagne toscane, battute da un forte vento in quella fredda domenica di fine dicembre. Dopo quasi tre ore di viaggio e le soste a Pisa, Pontedera, Empoli e Montelupo Fiorentino, finalmente arrivarono a Firenze. Nella città medicea ci fu poco tempo per perdersi in chiacchiere e l’allenatore Ivo Fiorentini arringò subito i suoi, che si avviarono, senza troppe proteste, subito al ristorante per il pranzo. Mancavano tre ore all’incontro con i viola di Giuseppe Galluzzi. A tavola si scherzava allegramente, erano state preparate per la squadra due grandi tavolate da dieci persone ciascuna, era stata una esplicita richiesta del mister, che voleva evitare la dispersione per cercare di mantenere la concentrazione in vista del match.

“Oggi ne faccio due a Griffanti, me lo sento” disse Pietro Degano.

“Vuoi fare uno sgarbo al tuo ex compagno?” rise Renato Tori, anch’egli anni prima aveva vestito la casacca viola.

“Per me basta che ne fai uno, poi ci penso io a loro” rispose Ascanio Assirelli. Poco prima di scendere dal treno l’allenatore aveva comunicato la formazione e tra i pali il posto era spettato proprio a lui, con gran rammarico di Porthus.

“Quindi non credi che possa fargliene due?” riprese indispettito Degano. Al sorriso ironico del portiere, Pietro Degano incalzò: “Trecento lire di scommessa. Faccio sicuramente due reti oggi, chi di voi accetta?”. Raccis lo guardò senza dire nulla, avrebbe voluto ribattere che lui ne avrebbe potuti fare tre, ma quella somma non era indifferente di qui tempi di magra. Alla fine il vocione del sig. Fiorentini spense, come una secchiata d’acqua gelida, gli ardori del dalmata Degano: “Basta con queste stupidate e pensate all’incontro, sapete bene che qui non ci amano tanto e cercheranno di farci un brutto scherzo. Non crediate che la vittoria di domenica scorsa con la Roma ci possa rendere oggi insuperabili”.

“Ma sig. Fiorentini, domenica scorsa ne hanno beccati quattro dall’Ambrosiana” ebbe l’ardire di rispondere il giovane Miniati.

Fiorentini si voltò verso di lui, quasi fulminandolo con lo sguardo, poi capì che a parlare erano i vent’anni del giovane Athos e sentenziò in tentativo di tolleranza con il suo tipico accento faentino: “Ragazzo mio, sai quanti ne ho visto trionfare e cadere nel breve volgere di due domeniche?”. Poi rivolto verso tutti ed abbassando il tono di voce, dopo aver notato che alcuni avventori si stavano interessando troppo ai loro discorsi: “Dovete mettervi in testa che oggi dovremo disputare una battaglia. Questi non ci molleranno fino all’ultimo minuto. Il loro allenatore dopo la figuraccia di domenica scorsa gli avrà strigliati e caricati a dovere, ficcatevelo in testa. Non vorrei che la festa del giorno di Natale a casa del presidente vi avesse rammollito”. Era un grand’uomo Fiorentini, naso prominente, fronte alta e spaziosa increspata dalle rughe ed i folti capelli, ormai brizzolati, che pettinava all’indietro, sempre elegante ed impeccabile, vestiva un bell’abito grigio, con abbinato un lungo giaccone nero.  Dopo il riferimento alla recente festa ben riuscita, nella mente del giovane Enrico Eschini si ripresentavano le armoniose melodie che  un’orchestrina, appositamente ingaggiata dal presidente Baiocchi, aveva suonato per tutto il pomeriggio. I giocatori, guidati dall’allenatore erano giunti con buon anticipo ed avevano scambiato gli auguri con il presidente, egli aveva ricambiato con dei doni pensati un pochino per tutti. Renato  nel pacchetto aveva trovato una raffinata penna in argento e un fermacravatta entrambi con incise le sue iniziali disposte specularmente, Enrico aveva ricevuto ugualmente un fermacravatta con le proprie iniziali ed un bel portafoglio in pelle scura. Dopo il pranzo, preparato su una lunghissima tavolata nel salone della villa del presidente, nel pomeriggio i commensali si svagarono con la musica ed i giocatori ebbero modo di danzare con alcune delle figlie dei dirigenti invitati. Enrico, un pochino timido ed introverso rimase inizialmente in disparte, ma poi dopo essere stato notato da una giovane – che in compagnia di altre ragazze osservava a distanza – vide che sorridendogli gli si faceva incontro.

“Ciao, che ci fai tutto solo qui?” disse la fanciulla, che non smetteva di sorridere.

“Mi scaldo, qui si sta bene” rispose, non sapendo bene che dire, mentre era visibilmente arrossito. La bellezza di quella giovane lo aveva turbato. Neppure il più roccioso dei terzini avversari era stato capace di renderlo così insicuro. Era bella quella ragazza, pensava. Mora, con un incarnato perlaceo, i capelli corvini ed acconciati con una pettinatura allora in voga che le incorniciava meravigliosamente il viso sposandosi a meraviglia con quel candore, inoltre faceva risaltare ancor più i suoi occhi, d’un verde così profondo che l’animo di Enrico ne veniva completamente avvinto.

“Hai ragione, ti sei scelto un bel posto” riprese senza smettere di sorridere e mentre con la mano si carezzava i capelli. Poi continuò “Sai, ti ho visto qualche domenica fa allo stadio, come hai fatto a fare quel gol?”.

Enrico non sapeva che dire, fu sorpreso che fosse stato notato mentre giocava da una giovane così graziosa e che capiva pure di calcio: “Non è stato semplice, Renato ha fintato verso il centro e si è trascinato con sé il centromediano a quel punto il lancio di Mario Stua era tutto per me. Mi sono infiltrato tra i due terzini ed ho saltato per evitare il fallo di uno di loro, il pallone ha rimbalzato ed ho visto il portiere che mi arrivava addosso come una montagna. Istintivamente l’ho scavalcato con un pallonetto ed evitando la sua carica ho segnato di testa a porta vuota. Non chiedermi come ho fatto, è finito tutto in un attimo. Fatto sta che abbiamo vinto uno a zero e dopo tanta panchina, grazie a quella rete ora sono titolare”.

“Non parlare di calcio Enrico, invitala a ballare” disse Renato mentre si chinava su di lui con un sorriso divertito per via dell’evidente imbarazzo del giovane amico.

Enrico colse al volo l’occasione, vinta ogni ulteriore timidezza, con la voce tremolante, nonostante avesse cercato di controllarla disse: “Ti va di ballare?”.

“Con molto piacere, le mie amiche moriranno d’invidia” rispose con un sorriso che gli fece tremare le gambe. I due giovani ballarono a lungo confusi tra le numerose coppie ed ancor più parlarono per tutta la sera. Solo un crucio rimase a fine serata al giovane Enrico: non le aveva chiesto come si chiamasse! Di rientro in albergo Renato, suo compagno di stanza, dopo avergli estorto tutti i particolari, lo canzonò per aver omesso una così semplice domanda: “Ma come fai a corteggiare una ragazza senza neppure chiederle come si chiama?” e se la rideva allegramente mentre guadagnavano infreddoliti la hall dell’albergo dove alloggiavano da qualche mese.

“Io non la stavo corteggiando, abbiamo semplicemente ballato” protestò Enrico. A queste improvvisate scuse, Raccis scoppiò in una fragorosa risata: “Si si, certo come no” riprese, ed il discorso terminò, con gran sollievo di Enrico, che non raccolse la battuta provocatoria.

***

“Enrico, sei imbambolato? Che fai, rimani qui?” disse Zidarich.

“Quello sogna, sogna sorrisi e boccoli di ragazza” aggiunse Ostilio Capaccioli, mentre ancheggiava e mandava un bacio ad Enrico. Evidentemente il suo caro amico Renato doveva aver raccontato tutti i particolari al gruppo.

“Renato” disse seccato Enrico, mentre lo fulminava con lo sguardo.

“Che centro io? Ti hanno visto tutti fare il cascamorto con quella brunetta” rispose Renato mentre rideva e mentre si prendeva Enrico a braccetto. Erano veramente diventati grandi amici quei due ragazzi. Entrambi appena ventenni, nessuno dei due era cresciuto nelle giovanili di una grossa squadra, Raccis aveva fatto gavetta alla San Giorgio di Cagliari ed era esploso al Prato che aveva portato in Serie B, Enrico si era fatto le ossa in una piccola Associazione Sportiva di Prima Divisione della Toscana e notato da uno degli osservatori del Livorno, a suon di ottime prestazioni si era guadagnato quell’estate l’ingaggio con i labronici. Dalla Quarta Serie alla Serie A nello spazio di una sola estate. Una volta negli spogliatoi, mentre tutti si cambiavano, Fiorentini ripeteva come un disco le sue consegne e con l’applicazione di quel “Metodo” puro, tanto caro al Commissario Unico della Nazionale, Vittorio Pozzo. Quel giorno al “Berta” ci sarebbe stato anche lui, in qualità d’inviato de “La Stampa” di Torino, ma anche deciso a tenere d’occhio proprio il suo amico Renato, entrambi erano stati selezionati per l’incontro della Nazionale della G.I.L. contro i pari grado della Croazia, forse sarebbero stati titolari in quel di Padova. L’arbitro dopo l’appello richiamò i giocatori in campo, tutti si schierano al centro del campo e salutano il pubblico che quel giorno, a dispetto della fortissima tramontana, era accorso in massa. Ben 15 mila spettatori nereggiavano gli spalti del  magnifico impianto fiorentino. I capitani effettuano il sorteggio. Ai viola il campo e agli amaranto la palla. Enrico si sistema gli scarpini, poi si accosta un attimo di corsa sulla fascia per bere un sorso d’acqua. In quel momento la voce di una ragazza lo richiama dalla tribuna posta dinanzi a lui. Era la misteriosa ragazza del giorno di Natale.

“Mi raccomando, segna una rete per me” disse mentre lo salutava graziosamente con la mano. In quel momento il suo amico Renato di corsa gli fu alle spalle e accostandosi all’orecchio gli disse “Ho scoperto come si chiama” poi sorrise e si allontanò. Enrico, come colto in una rete si voltò, ma Renato era già al suo posto. L’arbitro fischiò l’avvio dell’incontro. Il chiasso del pubblico si faceva sempre più assordante. Enrico riceve palla e salta Poggi, ma la sua mente è là sulla tribuna, di fianco alla ragazza con gli occhi verdi…

 

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 Mario Fadda

Insegnante, saggista e storico dello sport e romanziere. Ha pubblicato “La vera storia della maglia del Cagliari” ed in imminente uscita “1914-15. Il campionato mai finito” 

Collabora con la testata giornalistica Sardegna Sport e con altre testate del territorio nazionale. 

Potete seguirlo sulla pagina Fb: https://www.facebook.com/Calcio-daltri-tempi-Mario-Fadda-376410869093778/ e sul blog collegato alla pagina.

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