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Il Metodo Vincente #6: Non è tutto Oro quello che luccica

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A Berlino, dal Primo al sedici di Agosto, si respirò un’aria di festa. Sin dalla cerimonia d’apertura, infatti, le Olimpiadi mostrarono un lato della Germania hitleriana che molti non si aspettavano: piena accoglienza degli atleti, di qualsiasi nazionalità e colore della pelle, senza operare distinzioni e fornendo a tutti i migliori servigi, dalle piste d’atletica più performanti al mondo ad un villaggio olimpico con qualsiasi comfort per l’epoca. Gli unici sfortunati furono i cestisti: il basket, alla sua prima comparsata ai Giochi, si giocò all’aperto, e l’acquazzone che si abbatté su Berlino il giorno della finale offrì uno spettacolo non esattamente degno della disciplina, con il pallone che, schizzando sul campo, diveniva ingestibile.

E il calcio? Dopo lo stop del 1932, edizione olimpica nella quale, unica nella storia insieme al 1896, lo sport popolare per eccellenza non fu previsto tra gli sport in gara, per mano del proprio presidente De Baillet – Latour il Comitato Olimpico Internazionale decise di riservare la competizione ai soli calciatori studenti o universitari, per fare sì che si mantenesse quell’aura di dilettantismo propria dello spirito dei Giochi. Che, così, vennero privati dei migliori interpreti internazionali: dal nostro Piola all’austriaco Sindelar, dall’uruguagio Andrade al brasiliano Leonidas.

Così, per poter contare su una rosa competitiva, Pozzo e il suo staff furono costretti ad un lungo lavoro di scandagliamento per i campi italiani, specie tra le serie minori. I risultati della minuziosa ricerca furono positivi: se da una parte nessuno tra i convocati aveva mai giocato con la maglia azzurra, dall’altra erano presenti in elenco giocatori futuribili, quali il capitano Alfredo Foni, terzino della Juventus e futuro tecnico della nazionale tra il 1954 e il 1958, e il compagno di squadra Pietro Rava, nonché il neo interista Ugo Locatelli, di professione centrocampista.

In un’edizione priva delle grandi sudamericane, a stupire gli addetti ai lavori fu l’unica partecipante del continente latino, il Perù. Guidata dall’attaccante Alejandro Villanueva, uno dei pochi reduci dalla rassegna iridata del 1930, la selezione biancorossa eliminò con un netto 7-3 la Finlandia, per poi sovvertire ogni pronostico ai quarti di finale, infliggendo un pesante 4-2 all’Austria, una delle grandi favorite. La festosa invasione di campo dei tifosi peruviani, al fischio finale del norvegese Kristiansen, finì per danneggiare, e non poco, i giocatori: la rappresentativa austriaca dichiarò di essere stata malmenata da giocatori e tifosi, uno dei quali maneggiava una rivoltella, mentre abbandonava il campo, chiedendo l’annullamento e la ripetizione della partita. Il ricorso fu accettato e, come risposta, il Perù decise di ritirare dalla manifestazione l’intero contingente, privando gli interi Giochi di una propria protagonista.

La grande delusione, invece, furono i padroni di casa, che dopo aver battuto con un rotondo 9-0 il modesto Lussemburgo, caddero ai quarti contro la non irresistibile, almeno sulla carta, Norvegia, causando un discreto malcontento in seno al regime, che covava buone speranze di prendere una medaglia dal calcio. Tuttavia, gli scandinavi si confermarono osso duro anche in semifinale, dove persero solo di fronte all’Italia di Pozzo.

Dopo un esordio stentato, con un risicato 1-0 sugli Stati Uniti, ai quarti l’Italia rifilò ben 8 reti al malcapitato Giappone, una squadra dalle potenzialità fisiche impressionanti ma parecchio confusionaria nella tattica. Pozzo aveva già avuto modo di studiare i nipponici agli ottavi, notando i punti deboli su cui affondare: un ponderato gioco difensivo avrebbe permesso, in fase di ripartenza, alle due punte Carlo Biagi e Annibale Frossi di trovarsi indisturbati di fronte al portiere avversario. Mossa corretta, in quanto furono sette le realizzazioni dei due, e ben sei di queste in azioni di contropiede.

Lo spauracchio dell’eliminazione servì all’Austria per rigenerarsi e battere la Polonia per 3-1, garantendosi l’accesso alla finalissima. Dall’altra parte del tabellone, l’Italia vinse solo ai tempi supplementari, con la zampata vincente del solito Frossi.

Quest’ultimo, dunque, si erse a eroe nazionale, riconoscibile non solo per la grandissima velocità, con la quale metteva in apprensione le difese avversarie, ma anche per il suo look bizzarro: i problemi di vista, infatti, lo costringevano a scendere in campo con gli occhiali, tenuti saldi al loro posto da un elastico che gli cingeva la testa. Peraltro, Frossi rischiò di non essere presente a Berlino: nel 1935, il regime fascista lo richiamò alle armi per la guerra d’Abissinia. Si trovava già sul ponte della nave, quando il presidente della squadra dell’Aquila, nonché vicesegretario del partito nazionale fascista, Adelchi Serena, ordinò al comandante di farlo tornare sulla terraferma, offrendogli altresì un contratto con la squadra degli Abruzzi, con l’obiettivo, mai raggiunto, di ottenere la promozione in Serie A. La buona stagione in centro Italia, comunque, gli consentì di attirare le attenzioni dell’Ambrosiana Inter, che gli offrì un contratto per la stagione successiva.

Così, in finale, fu, per l’ennesima volta, Italia contro Austria. O meglio, Vittorio Pozzo contro Hugo Meisl, i due fautori e perfezionatori del Modulo. Impostare una partita dal puro e semplice punto di vista tattico sarebbe stato impossibile: i due allenatori si conoscevano a memoria, e avrebbero messo in atto pronte contromosse all’azione del tecnico avversario. Dopo un primo tempo bloccato sulla mediana, il gol di Frossi sbloccò il risultato al 70′. Il pareggio di Karl Kainberger, la classica prima punta tutta fisico e muscoli dell’Austria, tuttavia portò il match al supplementare, nel quale però, dopo appena due minuti, fu ancora l’occhialuto attaccante azzurro a mettere il suo sigillo, questa volta quello finale.

Al termine della partita, Pozzo avvicinò Meisl, bisbigliandogli qualcosa all’orecchio. L’allenatore austriaco chinò il capo, scuotendo la testa, quasi in lacrime. Si scoprirà soltanto dopo il contenuto di quelle frasi: Vittorio aveva dato appuntamento a Hugo a Parigi, per la finale del Mondiale francese. Ma Hugo, in quel cenno del capo, dimostrò di avere ragione: né lui né l’Austria scenderanno in campo in terra transalpina.

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