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Il Punto sul Bologna – I ragazzi della via Paal – 14 marzo

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Per la prima volta in tre anni ho percepito uno scricchiolio. Un rumore sinistro che coinvolge la mia città. E non mi piace. Anzi, meglio: mi preoccupa. Per la prima volta ho
visto un’incrinatura nello slogan #weareone. Perché, nonostante la vittoria sul Real Sassuolo, vedo che ognuno di noi rimane arroccato nella propria posizione, ritenendola più importante dell’obbiettivo finale. I tifosi, ad esempio, discutono tra loro, in molti casi con un eccesso di animosità che non può e non deve trovare spazio. Ci si rimprovera vicendevolmente di essere andati o non essere andati a Reggio, per la trasferta con i neroverdi. Ed in questa discussione, che a mio parere lascia il tempo che trova, si perde la misura delle cose, del traguardo che tutti noi abbiamo a bersaglio.
Ma non solo. Un’altra battaglia di quartiere è quella che coinvolge il Bologna Football Club e la stampa, o una parte di essa. Il silenzio dopo la vittoria non ha senso e, altrettanto, il rumore scaturito da quel silenzio. Dico la mia: in un mondo in trasformazione, anche e soprattutto nella tecnologia diffusiva delle informazioni, restare muti non giova e non è funzionale. Le notizie escono comunque ed il silenzio non fa altro che avallare i quindici minuti di celebrità di un qualunque blogger che pensa di fare uno scoop. Detto per inciso: la serata dei quattro giovani moschettieri non interessa nessuno ma è sicuramente prodromico a chi ha una tesi da dover sorreggere ad ogni costo, anche facendo gossip superficiale.
D’altro canto, anche farsi supportare da “alcune” statistiche pur di vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto, con la scusa della libera critica, sta diventando un po’ gommoso e difficile da digerire anche per chi ha uno stomaco forte.
Cos’è, dunque, che ci spinge a separarci? È necessità di protagonismo? Desiderio di dominare sull’altrui opinione? O più banalmente si tratta di attività erotico/masochistica?
Comunque sia, tutto ciò non porta giovamento a nessuno. Tantomeno a quel simbolo a cui porgiamo reverenza.
Non si tratta di fare un passo indietro, ma soltanto di comprendere che quel tintinnio che sentiamo svagatamente è un campanello d’allarme. Saputo non mollerà; e questo è un dato chiaro: nessun businessman abbandonerebbe tutti gli investimenti sin qui fatti solo perché avverte piccoli capricci di un mondo, quello calcistico, che dà libera cittadinanza a tutti noi. No, non è questa la mia preoccupazione. Quello che mi intimorisce è questa mancanza di capacità nell’essere uniti. E mi stupisce. Perché non fa parte della tradizione di una città aperta come la nostra, capace di reagire con forza e sapienza anche ai terribili anni di piombo.
L’arrivo di Saputo, lo ammetto, ha ingannato la mia percezione della realtà quindi. Pensavo, infatti, che un’occasione unica e irripetibile come quella che ci è capitata, fosse un fattore di aggregazione. Ma, evidentemente, mi sbagliavo. È bastata una striscia negativa di risultati (una cosa che capita mille volte, nella storia di una squadra) per far sì che si scoperchiasse il vaso di Pandora: quell’odio verso l’altro che non ha mai senso, non c’è gloria nell’irridere l’altrui posizione, non c’è onore nel puntare il dito contro qualcuno. E siamo tutti coinvolti, io per primo.
Nonostante tutto, però, il tempo non ci manca. Dei dieci anni proposti nel progetto di mister Saputo, ne sono passati appena tre. Checché se ne dica, soprattutto in ambienti dove l’impazienza porta solo all’eiaculazione anticipata di un’opinione, il fatto che la strada sia ancora lunga è in realtà un bene. Perché esiste ancora la possibilità che si sbagli perché si cresce. E se si cresce, sono necessari anche gli errori per capire come migliorare. Siamo i Ragazzi della via Paal, mastichiamo lo stucco per mantenerlo morbido, tra battaglie e delazioni. Un giorno, sul nostro campo di gioco, costruiranno palazzi. Manteniamo dunque il sogno, il più a lungo possibile. Ma manteniamolo tutti insieme, altrimenti diventa un incubo.

 

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