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Il Metodo Vincente #8: La custodia della Vittoria

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Mai, come in quel momento, il calcio italiano si era trovato in una posizione di preminenza così assoluta. È inutile negarlo: per quanto riguarda l’universo del pallone, l’Italia stava passando un periodo decisamente felice. Per la prima volta dalla tragedia da poco accaduta nella sua Torino, Vittorio Pozzo accennò un sorriso, nel momento in cui, ricordando l’impresa di quel Bologna, estrasse dal taschino della sua giacca un biglietto navale per l’Inghilterra, regalato allo storico commissario tecnico da un parente negli anni ’20, invitandolo a cercare un futuro migliore in terra d’Albione. Il lavoro alla Pirelli, i problemi di salute della moglie e la chiamata di Arpinati alla guida della Nazionale, però, lo avevano fatto desistere dall’idea di lasciare l’Italia: così, quel pezzo di carta rimase lì, chiuso in un capo di vestiario a pochi centimetri dal grande cuore dell’allenatore. 

 

Adesso, però, serviva l’atto di conferma: bissare il successo mondiale di quattro anni prima e conservare la custodia della Coppa Rimet, detenuta dalla vincitrice della massima competizione calcistica del globo terracqueo fino al primo calcio d’inizio dell’edizione successiva. La dea alata della vittoria, scolpita dai migliori maestri dell’arte francese, era il cimelio desiderato in mezzo mondo, ma non dagli inglesi, che si affermarono convinti della loro superiorità calcistica e decisero di non accettare l’invito della Francia, paese organizzatore, a mettersi in gioco. Per chi abitava oltre la Manica, in realtà, il vero scontro mondiale era quello che si teneva, in gare di andata e ritorno, contro una selezione ritenuta degna di affrontare i Three Lions: privilegio toccato anche all’Italia, nel 1934, e conclusosi con la vittoria britannica a Highbury e il pareggio a San Siro.

 

La rivale più temibile, da previsioni, è la temibile Austria di Matthias Sindelar e Karl Sesta. Il paese asburgico, però, è in una situazione dove la pace e l’armonia tipiche della terra di Amadeus Mozart si è tramutata in una crisi economica ed istituzionale: lo stato di default nel quale si trova il paese ha spinto la popolazione verso il nazismo e l’antisemitismo, con gli ebrei invisi a tutta la cittadinanza locale a causa delle ingenti ricchezze tradizionalmente detenute. In molti, ebrei e non, tentano di lasciare il paese, ma non Sindelar, che pur di rimanere all’Austria Vienna, nonostante le folli proposte dell’Arsenal, si è decurtato l’ingaggio di più della metà. Il sogno di vincere il mondiale con il suo Wunderteam, però, sfumerà quasi senza opposizioni il 12 Marzo del 1938, quando l’Austria viene annessa alla Germania con il cosiddetto Anschluss. Lo scontro degli ottavi di finale contro la Svezia rimarrà solo un sogno: la Federazione internazionale sancisce, ben prima che inizi la competizione, il 2-0 a tavolino. In tutto ciò, almeno, Meisl ha avuto la fortuna di non vedere il proprio paese e i propri concittadini piegati sotto un’altra bandiera.

Per Sindelar, il trauma è doppio, se non triplo: ha già trentacinque anni e volge verso il termine della carriera, e non potrà mai più difendere i colori dell’Austria. In più, il suo ginocchio, pesantemente infortunato in età giovanile, inizia a cigolare e a tormentarlo e, soprattutto, teme per la fidanzata, l’italiana di origini ebree Camilla Costagliola, che adesso non è più troppo gradita a chi comanda. Questo, però, è anche uno dei motivi per cui, nonostante gli acciacchi lo limitino parecchio, il 3 Aprile del 1938 scende in campo nell’ultima partita del suo Wunderteam, la squadra dei sogni,  nell’amichevole tra Germania e Ostmark (ovvero provincia orientale, nome dato alla regione austriaca con l’annessione) che serve a festeggiare l’unione dei due paesi e la macronazionale che sarà la favorita numero 1 in Francia.

 

Al Prater, terminerà 2-1 per Sindelar e compagni, con il numero 10 che sblocca il risultato al 70′, seguito dall’amico di una vita Sesta. La rete della bandiera addolcisce un ko che, in fondo, è già di per sé zuccherino per i gerarchi tedeschi, che sognano di alzare la Vittoria, altro nome della coppa Rimet, a Berlino, davanti ad Hitler.

Eppure, due mesi dopo, nella partita inaugurale contro la Svizzera, né Sindelar né Sesta saranno in campo. Paventando reali problemi fisici, nessuno dei due ha accettato la convocazione: è lecito pensare, però, che a pezzi non fosse tanto il ginocchio, ma il morale. La clamorosa eliminazione per mano della Svizzera già al primo turno, però, sarà un colpo gobbo per il regime, che adesso deve trovare un colpevole per la sconfitta. E lo troverà, ma ne parleremo più avanti.

 

L’Italia, che questa volta non è potuta restare insensibile al fascino del Bologna e dei suoi giocatori Andreolo, Biavati e Ceresoli, fatica e non poco per avere la meglio sulla Norvegia agli ottavi: è Piola, al quarto minuto dei tempi supplementari, a siglare la decisiva rete del 2-1, dopo i gol di un Ferraris ormai pienamente in carreggiata e il pareggio dello scandinavo Brustad. Va meglio ai quarti, dove i padroni di casa della Francia soccombono alla doppietta di Pioli e al gol del friulano Colaussi. O meglio, Colausig: il regime fascista, infatti, aveva imposto al giocatore di italianizzare il suo cognome di origini slave. Il bomber della Triestina si ripeterà in semifinale contro il Brasile, in un match in cui, a dire il vero, l’Italia ha incontrato anche i favori dell’arbitro Wuthrich, particolarmente ben disposto nei confronti dei nostri ragazzi. La finale contro i maestri dell’Ungheria, vinta per 4-2, sancirà il successo azzurro, che così conserverà a Roma la Coppa. Pozzo ricordò il mondiale così, velocemente, quasi ad indicare la fuggevolezza dei bei momenti, che fanno da contrappasso ai momenti bui che l’Italia, così come tutt’Europa, conoscerà a brevissimo.

 

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