Bologna FC
2 Agosto 1980, una ferita insanabile
Un membro della nostra Redazione ci racconta il suo 2 Agosto, con l’angoscia di chi lo visse in prima persona da vicino
Nel 1980 avevo 20 anni e finita la scuola avevo da poco iniziato a lavorare. Andavo a Modena tutti i giorni prendendo il treno alle 7:25 sul primo binario insieme a tanti pendolari, dal lunedì al venerdì. Quel 2 agosto era sabato ed io stavo tornando dalle Cinque Terre dove la sera prima ero andato per una cena tra colleghi. Non c’erano cellulari ed il traffico intenso mi obbligo’ verso le 11 a fermarmi ad una cabina telefonica tra Modena e Bologna per telefonare ed avvisare a casa che ero bloccato in coda.
Chi mi rispose dall’altra parte del telefono aveva un tono profondo, pieno di angoscia. “Meno male che mi hai chiamato. Non sapevo dove fossi. Torna a casa presto: qui e’ scoppiata la stazione.” Ma cosa dici? Ma chi te lo ha detto? “Me lo ha detto Ago (era mio cognato e faceva il capomovimento all’extra-urbano dell’ATC) che era a lavorare in ufficio in Autostazione. E’accorso subito. Ha detto che e’ una tragedia. Vieni qua subito.”
Risalii in macchina sconvolto. Feci i 25 chilometri di via Emilia che mi mancavano senza accorgermi del traffico di villeggianti, pensando solo a quello che mi aveva detto mia sorella al telefono. Arrivai in città e capii subito che tutto era purtroppo vero. Fin dalle prime case di Borgo Panigale la città era in un clima surreale, dove l’euforia per il sabato di festa che segnava l’inizio delle ferie aveva lasciato il posto allo sconforto. La gente che incontravo per la strada ai semafori aveva sui volti dipinta la tragedia. Facce tirate, nessun sorriso, solo sgomento. Man mano che mi avvicinavo al centro città incontravo sempre di più solo mezzi di soccorso, forze dell’ordine e vigili urbani. Da Porta San Felice non so come feci, ma riuscii a passare: tutti i viali erano gia’ bloccati. Io dovevo arrivare in via Lame per tranquillizzare mia sorella e correre a piedi alla stazione. Parcheggiai la Fiat Panda dietro il cinema Arlecchino e poi giu’ di corsa per via Azzogardino. Feci la strada con il cuore in gola.
Arrivai in Stazione dal lato di viale Pietramellara. Mi ritrovai sotto al portico degli Hotel di fronte alla stazione, che avevano i vetri delle finestre mandati in frantumi dallo spostamento d’aria. Era mezzogiorno, un’ora e mezzo dopo l’esplosione. Ci tenevano fermi li’ di fronte all’entrata del Milano Excelsior (oggi l’hotel ha un altro nome ed un architettura diversa), ma da li’ ebbi modo di vedere con i miei occhi le scene che ancora oggi troviamo negli scatti dei reporter dell’epoca. L’apocalisse era li’ di fronte a me a 50 metri.
Mi sentii inerme di fronte a quella tragedia. A quell’ora ancora non c’era la certezza che si trattasse di un attentato, qualcuno iniziava a parlare dell’odore tipico della polvere da sparo fiutato subito dopo l’esplosione. I più pero’ ancora si appellavano all’ipotesi dell’esplosione nelle cucine del buffet sul primo binario, ma dentro di me, ed in tutti quelli che erano li al mio fianco, iniziava a farsi largo il timore che quella a cui stavamo assistendo fosse la conseguenza di un attentato, della pagina più nera della stagione dello stragismo in Italia.
Non rimasi li molto. Non volevo sentirmi come quei “curiosi” che si fermano in autostrada nella corsia opposta quando capita un incidente. Me ne andai. Ma dentro di me le immagini di distruzione, di morte, di tragedia che aveva colpito alla cieca la mia Bologna mi avevano segnato. Quella cosa terribile, enorme, impossibile anche solo da pensare era veramente accaduta. Proprio qui, a Bologna, nella mia città, su quel primo binario della Stazione, dove tutte le mattine salivo di corsa sul treno 2700 per Modena, magari dopo aver bevuto un caffe’ in quel bar ora raso al suolo, dopo aver magari fatto una battuta sul Bologna e sui 5 punti di penalizzazione che ci avevano dato per il Calcio scommesse. Mi sembrava impossibile…invece era così!
Lo ammetto: in un primo momento provai quasi a far finta di niente, a rimuovere. Ma per tutto il giorno, mentre provavo a ritrovare qualcosa di normale nello spirito della città, camminando per le strade del centro, mi sembrava di vivere un’ allucinazione, qualcosa di irrazionale. Il suono di una sirena, un fischio di un vigile, un motociclista della polizia che sfrecciava scortando quell’autobus, con i drappi bianchi ai finestrini, che portava l’ennesima vittima estratta dalle macerie verso l’obitorio di via Irnerio mi facevano schizzare da sotto i portici verso il centro di via Indipendenza per vedere, per sapere, per capire.
Dentro di me capivo che non avrei potuto fare nulla, ma non potevo stare fermo…sentivo che dovevo tornare là, in quella maledetta stazione dilaniata e questa volta non per vedere, ma per aiutare a scavare, a portare soccorso per quello che io, ragazzo di 20 anni, potevo fare…
Partii da casa con il mio amico Francesco e la sua fidanzata. Arrivai al varco del piazzale Ovest. Francesco non se la sentì, io entrai. Nessuno mi fermo’. All’altezza del binario 1 Ovest un carabiniere mi fermo’. Gli dissi: “Ho pensato di venire a chiedere se c’e’ bisogno di dare una mano…di dare il cambio a qualcuno che magari e’ da 10 ore che scava…sono di Bologna…ho 20 anni…”. Ci guardammo negli occhi. Lui capi’ le mie intenzioni e probabilmente comprese il mio stato d’animo. Tutto si svolse in pochi secondi. “Passa da davanti, entra dall’atrio Centrale. Di le stessa cose che hai detto a me. Ti daranno una mascherina per coprirti la bocca e ti diranno cosa fare”. Non gli dissi grazie: in quel momento non c’era nulla che meritasse un ringraziamento. In un attimo mi ritrovai sul primo binario, all’altezza del sottopassaggio, in mezzo alla totale distruzione che quella bomba aveva provocato, a scavare insieme a tanti militari di leva prelevati dalle caserme di Bologna e ad una miriade di Vigili del fuoco che provavano a coordinare. A quell’ora c’erano ancora macerie dappertutto ed il timore che sotto ci fossero ancora corpi di altre vittime era ancora forte. Si lavorava alla luce delle foto elettriche ed ogni tanto qualcuno urlava “Fermi” perché da sotto un detrito sembrava ancora venire fuori un rivolo di sangue. Ed allora il piccolo scavatore e le vanghe si fermavano e si proseguiva a mano.
Sotto ai vagoni del treno che al momento dello scoppio si trovava in sosta sul primo binario c’erano ancora le pietre dei muri sbriciolati dall’esplosione e bisognava spostarli. Mi infilai sotto a quei vagoni, tra il binario e le ruote insieme a due soldati ed iniziammo a spostare quei pezzi di mattone e cemento uno ad uno. Non dimenticherò mai il fremito di rabbia che percorse tutti quanti quando spostando le macerie apparve il cosiddetto “braciere”: quel metro e mezzo di pavimento dove una mente malvagia abbandono’, nella sala di aspetto di 2^ classe, la bomba in mezzo a tutti quei turisti che aspettavano di prendere il loro treno per tornare a casa o per andare in ferie ed il cui nome purtroppo rimarrà per sempre scritto sulla lapide di piazza Medaglie d’Oro.
Ad un certo punto di fianco a me mi ritrovai un ragazzo di 24-25 anni che aveva un paio di bermuda rossi ed una maglia a bianca. Lavorava come me e dall’accento delle poche parole che proferì capii che non era di Bologna. Era uno studente calabrese iscritto alla nostra Università, che come me aveva sentito il bisogno di provare a rendersi utile, a fare qualcosa. Non l’ho più’ rivisto, cosi come di quella notte non mi e’ rimasto un nome. Quando alle 5 e mezzo della mattina del 3, dopo nove ore ininterrotte, esausto, uscii da dove ero entrato mi ricordo che mi venne incontro una infermiera che mi chiese “Tutto bene?”. Mi ero leggermente ferito alle mani. Mi medicò e mi chiese come mi chiamassi. Non ricordo se risposi. Uscii fuori e mi avviai verso l’Autostazione dove era fermo un taxi: non ce l’avrei fatta ad arrivare a piedi a casa. Ero senza un soldo o un documento in tasca. L’autista vide il mio viso sconvolto da quello che avevo visto e fatto nella notte e mi fece salire e mi riaccompagnò a casa senza volere una lira.
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