Calcio
La storia del Grande Torino (3^ parte) – 25 nov
Dopo aver dominato in lungo e in largo il calcio italiano per quasi un decennio, ed aver gettato le basi per un nuovo trionfo azzurro negli imminenti Mondiali del 1950, il ciclo del Grande Torino si interrompe improvvisamente, e nel modo più tragico: l’aereo che lo riporta in Italia da una trasferta in Portogallo si schianta contro la Basilica di Superga, consegnando la squadra più forte mai vista alla leggenda.
Il 30 aprile del 1949 si gioca a Milano Inter-Torino: i nerazzurri padroni di casa inseguono gli invincibili granata, lanciati verso quello che sarebbe il quinto Scudetto consecutivo non contando l’anomalo ‘Campionato di Guerra’ perso comunque in finale. Finisce 0 a 0, con Bacigalupo che si conferma un portiere con i fiocchi e che rintuzza i veementi attacchi avversari. Pareggiare significa, in pratica, avere lo Scudetto in tasca per i granata: mancano quattro giornate alla fine, il Torino precede l’Inter di quattro punti ed ha mostrato negli anni di essere sempre più forte, smentendo chi sosteneva che prima o poi il logorio di certi elementi-cardine della formazione titolare avrebbero finito per emergere. In estate la società di Novo, fedele al motto “squadra che vince non si cambia” ha operato come fa ormai da un paio di stagioni solo alcuni piccoli ritocchi relativi alle riserve: ceduti il buon centravanti Fabian, che ha una gran media-gol ma che fatica a trovare spazio, e il 36enne Ferraris che è stato tra gli eroi delle prime stagioni vittoriose, per volere di Erbstein sono arrivati rinforzi dal nome non altisonante ma dall’adeguata sostanza tecnica per sostenere un gruppo che è ormai considerato invincibile. Due portieri, Dino Ballarin fratello di Aldo e Renato Gandolfi dalla Carrarese, e ben tre stranieri: si tratta dello slovacco Schubert e dei francesi Bongiorni e Grava. Completano il gruppo dei “nuovi” due talenti made in Piemonte, il difensore Piero Operto e il centrocampista Luigi Giuliano – arrivano rispettivamente da Casale e Pro Vercelli – e il giovanissimo campioncino della Gallaratese Rubens Fadini. Di quest’ultimo si dice un gran bene, e nelle intenzioni di tutti dovrebbe essere l’erede designato del grande capitano Mazzola.
Già, perché quello che per tutti ormai è il miglior calciatore italiano al mondo, Valentino Mazzola, mai come nell’estate del 1948 è stato vicino a salutare il Torino: l’Inter gli ha fatto ponti d’oro, lui lo ha ammesso pubblicamente e anzi ha annunciato di voler vestire il nerazzurro prima di partire per la tournée brasiliana che ha avuto luogo in estate. Va per i trent’anni, e pensa che sia il caso di monetizzare l’enorme talento lasciando da vincente una squadra dove però la mentalità “partigiana” di Novo vuole che tutti i titolari guadagnino gli stessi soldi.
“Ringrazio tutti gli sportivi italiani per la simpatia che hanno dimostrato al sottoscritto ed ai suoi compagni di squadra. Adesso andiamo in Brasile e cercheremo di tenere anche laggiù ben alto il nome del calcio italiano. Intanto auguri di buone ferie a tutti e arrivederci l’anno prossimo a Milano. È mia ferma intenzione di abbandonare il Torino per trasferirmi a Milano e precisamente all’Internazionale. La società nerazzurra mi ha fatto delle ottime proposte e mi ha anzi autorizzato a trattare direttamente con il Torino per suo conto. In questi giorni debbo avere un incontro con il presidente del Torino e farò tutto il possibile perché l’affare vada a buon termine.”
Tutto rientrò quando il campionato era già cominciato: Mazzola restò fuori dalla formazione titolare nella prima giornata, quando il Torino stese la Pro Patria, e rientrò contro l’Atalanta dopo che gli stessi compagni si erano recati in blocco da Novo e Erbstein chiedendo loro di accontentare il capitano, che tutti ritenevano determinante e tutt’altro che in fase calante. Evidentemente chi ogni giorno si allenava con Mazzola sapeva il fatto suo, e infatti i granata presero come sempre la testa del campionato intorno alla fine del girone d’andata, quando riuscirono a scrollarsi di dosso la Lucchese rivelazione spinta dai gol dell’ex Fabian e proprio la squadra che aveva sognato l’ingaggio di Mazzola, l’Internazionale che si appoggiava comunque sullo splendido talento apolide di Istvàn Nyers e sull’idolo di Roma Amedeo Amadei. E nonostante la presenza granata nella Nazionale che attendeva con fiducia i Mondiali del 1950 in Brasile fosse sempre importantissima (7 giocatori su 11 nella vittoria con il Portogallo per 4 a 1 nel febbraio del 1949, 6 il mese successivo contro la Spagna battuta a Madrid per 3 a 1) era evidente che seppur fortissimo quel Torino non era più l’impressionante schiacciasassi delle stagioni precedenti: i motivi erano numerosi, dall’età media che era avanzata alla difficoltà di inserire senza patemi i nuovi acquisti, senza contare che la concorrenza non solo si era ovviamente rinforzata, ma aveva studiato il modo di giocare dei granata cominciando ad indovinare alcune contromisure. A tutti questi perché si aggiungevano gli affari privati di Mazzola, che sembrava ormai aver lasciato moglie e figli per un nuovo chiacchieratissimo amore, in un’epoca in cui il divorzio non era contemplato dalla legislatura nostrana.
Sia quel che sia, anche se si può pensare che prima o poi qualcuno sarebbe riuscito ad avvicinare e infine a battere il “Grande Torino”, il campionato 1948/1949 fu ancora appannaggio dei granata e dopo, purtroppo, nessuno avrebbe potuto provare la veridicità di questa teoria. Dopo che appunto il 30 aprile del ’49 il Toro (senza Mazzola) si presenta a Milano contro l’Inter privo del capitano e uscendo dal campo imbattuto è ormai lanciato verso l’ennesimo trionfo tricolore, accade un evento che segnerà tragicamente e per sempre la storia del calcio italiano: il Torino è atteso a Lisbona, invitato dal capitano del Benfica – e grande amico di Mazzola – Francisco Ferreira per una partita in suo onore, usanza ai tempi abbastanza diffusa per premiare quei giocatori considerati meritevoli di premi ulteriori dalle proprie società. Era del resto quello che lo stesso Torino usava fare abitualmente, con Novo incapace di offrire ai giocatori lo stesso trattamento che avrebbero ricevuto in piazze più ricche e che quindi dava ai suoi il permesso di raggranellare qualche soldo in giro per il mondo.
La squadra parte alla volta di Lisbona il mattino successivo alla gara con l’Inter, direttamente da Milano. Ci sono tutti, o quasi: mancano l’infortunato Sauro Tomà, difensore spezzino che si sta ritagliando uno spazio importante, e l’influenza ha costretto a letto sia il giovane Giuliano capitano della Primavera ma nel giro della prima squadra che il presidente Novo. Poi manca chi doveva esserci ma non c’è: il centrocampista della Roma Maestrelli, amico di Mazzola, che doveva venire come “guest star” ma è stato bloccato dal passaporto scaduto, quindi il radiocronista Nicolò Carosio che ha la cresima del figlio, e poi Renato Gandolfi, il secondo portiere. Aldo Ballarin, icona della squadra, è intervenuto con Novo e Erbstein per far si che alla squadra si aggreghi al suo posto il terzo portiere, suo fratello Dino, che è ovviamente esaltato dall’insperata gita-premio. Manca anche Vittorio Pozzo, fresco ex-CT della Nazionale ed entrato in contrasto con Novo dopo aver contribuito a creare insieme a lui il ‘Grande Torino’ e averlo trapiantato anche in maglia azzurra.
La partita con il Benfica è l’ultima che il “Grande Torino” gioca nella sua storia: è una sconfitta per 4 a 3, ma il risultato non conta, le squadre non giocano per vincere ma per divertire un pubblico entusiasta che infatti ricorda una partita “correttissima, giocata a viso aperto per amore del calcio”, e forse i granata da consumati uomini di spettacolo lasciano che a vincere sia chi organizza la festa, che tanto è pur sempre un gioco, no?
Bacigalupo; Aldo Ballarin, Martelli; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Mazzola, Ossola; Gabetto. Questa è l’ultima formazione del ‘Grande Torino’ che il mondo ricorderà, con i subentri a partita in corso del giovane Fadini (ricordate? Colui che avrebbe dovuto sostituire Mazzola) e del francese Bongiorni. Dopo la partita si tiene la tradizionale festa, durante la quale Ferreira chiede all’amico Valentino di restare qualche giorno in più. Niente da fare, ci sono troppi impegni, e c’è un campionato già vinto ma ancora da onorare, così la squadra riparte per l’Italia la mattina del 4 maggio, quando sono da poco passate le 9,30: gli aerei non sono certo quelli di oggi, si tratta comunque di un viaggio impegnativo, e alle 13 il velivolo fa scalo a Barcellona per rifornirsi di carburante, con la squadra che incontra i rivali del Milan diretti a Madrid per un’amichevole. Intorno alle 15 il trimotore FIAT G.212 riparte in direzione Torino agli ordini del capitano Meroni e con a bordo quella squadra che è ormai diventata – insieme a Fausto Coppi, che peraltro è tifoso granata – il simbolo dell’Italia che rinasce, che lotta, che non ci sta a restare a terra dopo le tragedie della Guerra e del Fascismo. Di quanto succede a bordo in quelle ore non possiamo ovviamente sapere nulla, ma solo immaginare.
Immaginare quel gruppo di ragazzi, uomini, cresciuti insieme e passati attraverso gli anni della guerra. Immaginarli ridere e scherzare, pensare ai propri familiari e al futuro, magari al prossimo campionato da conquistare, al prossimo Mondiale dove andare a vincere, confermando quel titolo di Campioni del Mondo che ancora appartiene, dal 1938, agli azzurri. Possiamo pensare ad un capitan Mazzola pensieroso per le sue vicende private, diviso tra la famiglia e un nuovo amore, tra il Torino che gli appartiene e l’Inter che gli farebbe ponti d’oro. E poi a Bacigalupo, che da poco si preso la porta della Nazionale dopo diverse resistenze, a “Zampa di velluto” Castigliano, che usa palleggiare una monetina per poi infilarla al volo nel taschino della giacca mostrando in un solo gesto la sua classe e la sua allegria. Quella squadra del resto si è affermata grazie alla classe dei suoi giocatori, ma soprattutto grazie allo spirito di gruppo, forgiato dagli anni della guerra in cui tutti hanno lavorato insieme alla FIAT, con la società vicina alla Juventus che si è impegnata per proteggere i giocatori patrimonio della città. Uno spirito di gruppo creato dagli eventi della storia ma in cui ha giocato la sua parte anche il creatore della squadra, il direttore d’orchestra, quell’Egri Erbstein che è dovuto fuggire dall’Italia per le ‘leggi razziali’ come il mitico Árpád Weisz ma che a differenza del collega è potuto tornare al calcio che è la sua vita: sicuramente, mentre l’aereo vola verso Torino, sta già progettando la stagione successiva, la campagna di rafforzamento, qualche soluzione tattica.
Il pomeriggio del 4 maggio del 1949 il cielo è plumbeo, e mentre Torino attende il ritorno della sua squadra sale una nebbia sempre più fitta ad avvolgere tutto. La torre di controllo dell’aeroporto cittadino contatta l’aereo per avvisarlo della situazione, e quando manca un minuto alle cinque del pomeriggio riceve la comunicazione che questo si trova a 2000 metri di altezza e a un pugno di chilometri dalla pista. “Metti su il caffè che ormai ci siamo” dice il comandante Meroni all’amico Vittore Catella che opera a terra. Invece passano i minuti e il caffè si raffredda, mentre dell’aereo non c’è alcuna traccia. L’ansia cresce, e le domande trovano una tremenda risposta quando arriva la notizia di chi abita dalle parti di Superga: sulla Basilica si è schiantato un aereo, sono tutti morti.
Il “Grande Torino” è finito così, sconfitto dal fato, e poco importa alla fine scoprire poi che è stato il vento a mettere l’aereo fuori rotta, la nebbia a ingannare il pilota, l’altimetro guasto a non avvisare che invece che a 2000 metri il velivolo si trovava ad appena 600 metri di altezza: importa, è ovvio, capire come muore in un momento la squadra più forte di sempre ad aver mai giocato in Italia, ma alla fine cosa cambia? Il “Grande Torino” ha trovato l’unico avversario che non poteva superare, venendo sconfitto in cielo in un pomeriggio odioso pieno di vento e nebbia, mentre la città ne attendeva il ritorno per riabbracciarlo ancora. Il colpo, l’impatto sul morale dell’intero Paese, è tremendo: la polizia impedisce alle mogli e ai familiari dei giocatori di avvicinarsi all’area, mentre chiama proprio quel Vittorio Pozzo che doveva essere su quel volo e che conosceva tutti i giocatori. Il compito: riconoscere le salme, per quanto è possibile.
Sono morti tutti e 31 gli uomini a bordo. I quattro uomini dell’equipaggio, il comandante Meroni e gli assistenti D’Inca, Biancardi e Pangrazi; i giornalisti Casalbore, Tosatti e Cavallero; i dirigenti Agnisetta, Civalleri e Bonaiuti, e con loro gli allenatori Erbstein e Lievesley, il massaggiatore Cortina. E poi i giocatori: Valerio Bacigalupo, Aldo e Dino Ballarin, Èmile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Julius Schubert e il capitano Valentino Mazzola.
I giornali escono subito, chiaramente, con l’edizione della sera straordinaria, e i titoli sono eloquenti: “La Gazzetta dello Sport” definisce l’evento una “tremenda sciagura per lo sport e per il giornalismo italiano”, ma è “La Stampa” di Torino a riassumere al meglio il pensiero della maggior parte degli italiani. “Un grave lutto ha colpito la nazione, lo sport, il giornalismo”.
Nei giorni seguenti ci saranno i funerali, toccanti, durante i quali una folla immane saluta per l’ultima volta quei giocatori che erano riusciti ad incarnare un sogno, quello di un’Italia orgogliosa e capace di rialzare la testa fiera. Il campionato viene assegnato d’ufficio ai granata, che giocano le ultime quattro gare con la formazione dei “Ragazzi”, imitato dagli avversari di turno. Rinascere dalle ceneri sarebbe un sogno, ma chi tifa granata impara da quel giorno che i bei sogni non sono fatti per ripetersi: il Torino soffrirà ancora, soffrirà sempre da allora, vivrà anche le storie di Gigi Meroni prima e di Giorgio Ferrini poi, arrivando a vestire il lutto, il dolore, la sofferenza, con la stessa naturalezza con cui vestiva il granata negli anni in cui capitan Mazzola e i suoi compagni davano lezioni di calcio in tutta l’Italia. E il calcio italiano? Avanti di vent’anni grazie allo squadrone di Novo e Erbstein, dopo la tragedia si troverà vent’anni indietro: arriveranno anni bui, di catenaccio e pessime figure ai Mondiali, dove nel 1950 i giocatori vanno addirittura in nave, ancora scossi da quanto successo allo squadrone granata.
Eppure, se è vero che i sogni non sono fatti per ripetersi, questo rende quella squadra ancora oggi immortale: Bacigalupo, che amava uscire dai pali ed era un innovatore in questo, e poi Ballarin, il terzino più costoso d’Italia, Castigliano e la sua monetina, e i suoi gol, e “l’elefante” Loik, che caracollava implacabile per il campo, mentre sulle ali serpeggiavano i dribbling irresistibili di Romeo Menti e di quel Franco Ossola che da ragazzo il mister tifoso del Torino non faceva giocare al Varese per paura che le squadre lombarde che bazzicavano la provincia se lo prendessero. E poi, via via, tutti gli altri, grandi uomini e grandi campioni, fino al capitano Mazzola, che non a caso racchiudeva in se tutte le migliori qualità di ognuno dei compagni.
“Ero centravanti, segnavo molto. Segnai anche quella volta: o meglio, fui certo di aver segnato, perché battei in rete a colpo sicuro. Alzai le braccia al cielo, le abbassai, me le misi nei capelli. Sulla linea di porta era sorto, materializzandosi dal nulla, Valentino Mazzola, aveva fermato il mio tiro, aveva stoppato il pallone. Tornai verso il centro del campo con la testa china, ero deluso, quasi disperato. Avevo fatto pochi passi, ricordo, avevo appena superato il limite dell’area di rigore granata, quando alzai gli occhi, come avvertito da un boato progressivo che invadeva il campo. Mazzola si era già materializzato là, vicino la mia porta, e segnava!”
(Giampiero Boniperti)
Non soltanto il ‘Grande Torino’ fu la squadra più forte mai vista su un campo di calcio in Italia; non soltanto riuscì a rappresentare sempre almeno metà della Nazionale e in un’occasione ben dieci undicesimi di essa; il ‘Grande Torino’ fu soprattutto un sogno e un simbolo, di un’Italia distrutta eppure capace di rialzarsi sulle sue gambe, con orgoglio, fu soprattutto una squadra talmente forte e bella da suscitare ammirazione e rispetto in ogni tifoseria. Per questo, per l’idea di calcio che seppe coltivare in un popolo notoriamente diviso da un assurdo campanilismo che a volte non permette di godere appieno della bellezza e della ricchezza che il vicino ha da offrire, la sua storia e il suo mito non vanno dimenticati mai. Perché se ancora si vuol credere che il calcio possa essere un gruppo di uomini veri uniti da sincera amicizia e guidati da dirigenti che hanno sogni, ideali e programmazione al di là dei soldi ecco, bisogna ricordare che tutto questo e molto di più fu il “Grande Torino”, squadra “per sempre in trasferta” – come disse il grande Montanelli pochi giorni dopo la sciagura – e per sempre impegnata a giocare in cielo, distrutta dallo stesso destino che l’ha però consegnata al mito. Forse l’ultima vittoria, dunque, di una squadra leggendaria.
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