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Calcio

La storia di Toni Turek, l’uomo che fece rinascere un Paese – 28 giu

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13 luglio 2014, stadio “Maracanà” di Rio de Janeiro. La Germania sconfigge l’Argentina e si laurea campione del mondo. È la vittoria di un movimento che già da anni domina nel calcio continentale, a sua volta espressione di un’economia fiorente leader nel mondo. È la vittoria di un gruppo, nel quale però se si vuole trovare un protagonista lo si deve individuare nel portiere Manuel Neuer, assolutamente determinante durante tutto il torneo e che non a caso a fine anno arriverà a giocarsi la vittoria del Pallone d’Oro.

Si, ma quando è iniziato tutto questo? Per gli storici Joachim Fest e Arthur Heinrich, la storia della Germania come Paese dopo la disfatta della Seconda Guerra Mondiale è iniziata sessant’anni prima, nel 1954, in Svizzera, quando la Nazionale di calcio ha conquistato a sorpresa la Coppa Rimet sconfiggendo in finale i fortissimi ungheresi noti come l’Aranycsapat, “la Squadra d’Oro”. Forse esagerano – o forse no – ma di certo quel giorno, nell’evento noto come “il Miracolo di Berna“, inizia la storia della Germania calcistica: prima di allora, infatti, i tedeschi contavano pochissimo nel calcio, surclassati a più riprese da italiani, sudamericani e persino molti “vicini di casa” come i cecoslovacchi, gli austriaci e appunto gli ungheresi. Il calcio si era sviluppato lentamente in quello che oggi è il Paese dominante di questo sport, e ai Mondiali si era visto: assente (come molti paesi europei) all’edizione del 1930 in Uruguay, la Germania era stata eliminata malamente nelle edizioni del 1934 e in quella del 1938, dove non solo l’annessione forzata degli austriaci in seguito all’invasione nazista aveva dimostrato di non dare i suoi frutti, ma forse era anche stata la causa di un’eliminazione clamorosa ad opera della piccola Svizzera. Nel 1950, poi, la Germania non partecipò al torneo per volere della FIFA: il Mondiale era tornato dopo la pausa per via della guerra, una tragedia in cui i tedeschi avevano più che qualche responsabilità. Una forzata pausa di riflessione, al Paese che aveva ospitato i lager, pareva il minimo sindacale.

Tutto cambiò in quel pomeriggio di luglio del 1954, e molteplici furono i motivi. In un’epoca dove le sostituzioni non esistevano, la stella dell’Ungheria Puskás volle giocare ugualmente, ma dopo aver segnato proprio al “pronti-via” sparì lentamente dalla gara; gli ungheresi sottovalutarono i rivali dopo averli sonoramente sconfitti appena qualche giorno prima; pioveva, e le scarpette indossate dai tedeschi e inventate da un certo Adi Dassler (dice niente il nome “Adidas”?) sulla lunga distanza diedero un vantaggio ai teutonici; si svegliò il genio intermittente di Helmut Rahn; c’è chi parla anche di doping.

Tutto vero e possibile. Ma non sono in pochi quelli che sostengono che la vittoria arrivò grazie a un uomo, un portiere, che da vero tedesco seppe reagire ad un destino che sembrava già scritto e che con un miracolo (qualcuno la definisce tuttora la parata più bella di sempre) negò un gol già fatto all’Ungheria. Il suo nome era Anton, ma per tutti era Toni: Toni Turek. La caduta e la rinascita si concretizza nel giro di poco meno di mezz’ora, con la Germania che si è presentata alla finale nelle vesti di vittima sacrificale: impossibile contrapporsi a una squadra, quella Ungheria, che non solo non perde da quattro anni durante i quali ha massacrato anche i “maestri inglesi” (6 a 3 a Wembley, 7 a 1 a Budapest) ma appena pochi giorni prima ha sconfitto i tedeschi nel girone per 8 a 3, costringendoli allo spareggio con la Turchia per continuare il torneo. Turek a quella gara ha assistito dalla panchina, lasciando il posto alla riserva Kwiatkowski. Il CT Herberger ha infatti effettuato un turn-over quasi totale, conscio dell’impossibilità di giocarsela alla pari con gli avversari: meglio risparmiare gli uomini migliori per la sfida con la Turchia, sperando che nel frattempo l’Ungheria venga estromessa da qualcun altro. Cosa che non accade: nonostante l’infortunio – proprio in quella gara – della stella più luminosa, Ferenc Puskás, i magiari sono stati capaci di superare Brasile e Uruguay, due tra le più forti Nazionali al mondo in quel momento. La Germania ha invece fatto fuori Jugoslavia e Austria, che non sono proprio la stessa cosa.

Toni Turek è arrivato al calcio che conta relativamente tardi: nato a Duisburg, sulle rive del Reno, è cresciuto nel club cittadino prima di mettersi in mostra con una buona stagione all’Eintracht di Francoforte. Quando arriva l’esordio in Nazionale, tuttavia, Turek ha ormai 31 anni ed è in quella che si può definire la fase conclusiva della carriera. Siamo nel 1950, la Germania sta tentando faticosamente di riprendersi dopo una guerra che l’ha devastata: Toni – che è stato salvato dal proprio elmetto da una scheggia di una bomba che avrebbe potuto ucciderlo – ha giocato una carriera più che discreta che si sta concludendo nelle fila del modesto Fortuna Düsseldorf. In patria non gode di enorme considerazione, ma per Herberger, CT della Nazionale dai tempi del Führer, è “un genio del calcio”. Quando cominciano i Mondiali di Svizzera, Turek ha 35 anni ed è il portiere titolare della Germania senza se e senza ma.

E torniamo a Berna, a quel giorno di luglio del 1954 in cui la storia del calcio cambia, e forse non solo quella. Dopo pochi minuti l’Ungheria tenta un lungo lancio in profondità, Turek esce con i piedi con sicurezza e respinge il pallone, che però viene ancora riconquistato dai magiari: Kocsis tenta il tiro, un difensore devia la sfera che però arriva ai piedi di Puskás. Il campione ungherese era noto per il tiro potente e preciso, che faceva preoccupare i portieri anche da 30-40 metri. Figuriamoci, da appena fuori area, se può sbagliare: tiro, gol. 1 a 0 per l’Ungheria dopo poco più di cinque minuti. Un minuto dopo il raddoppio: la Germania è ancora scossa, Kohlmeyer tenta di appoggiare il pallone proprio a Turek da pochi passi, il portiere però è sorpreso, pasticcia, il pallone gli sfugge di mano. Czibor è lì, si impossessa della palla e la infila a porta vuota. 2 a 0, e non sono passati neanche dieci minuti. La disfatta è dietro l’angolo: dei tedeschi, certo, ma soprattutto di Turek, che ha pesanti responsabilità sul raddoppio magiaro.

Proprio quando tutto sembra finito, però, la storia cambia. I tedeschi reagiscono, accorciano con Morlock subito dopo e pareggiano al 18° minuto con Helmut Rahn. L’Ungheria è sorpresa: abituati alle partenze brucianti, i magiari erano soliti annichilire l’avversario nei primi minuti per poi disporne quando questo, demoralizzato, si consegnava all’inerzia della gara. Invece quella è una reazione che stupisce il mondo intero: è la prima grande Germania calcistica. E Turek è il primo grande portiere di quella che sarà una delle scuole migliori del mondo: la prova è il 24° minuto, quando Hidegkuti si libera in aria e al volo batte a colpo sicuro da pochi metri. La reazione di Turek, che con insospettabile agilità vola a deviare quel pallone alto con un pugno, è da molti considerata ‘la miglior parata di sempre’. “Turek, du bist ein Teufelskerl! Turek, du bist ein Fußballgott!” grida in preda all’estasi il telecronista tedesco Herbert Zimmermann. ‘Teufelsker’, in tedesco, è un appellativo che si dà a chi si dice abbia venduto l’anima al Diavolo. Non meno blasfema, ma senz’altro più semplice, la traduzione della seconda frase: “Turek, sei un Dio del calcio!”

Un Dio del calcio. Forse non sempre, ma certo quel pomeriggio a Berna. Turek infatti si ripete in più occasioni: sul successivo calcio d’angolo vola su un colpo di testa di Kocsis, mentre nel secondo tempo respinge una botta di Bozsik, si supera di piede su un mortifero tiro di Puskás e compie altri due miracoli su Czibor. Ci si mettono anche un palo, una traversa e un fuorigioco quantomeno dubbio a fermare gli ungheresi. A cinque minuti dal termine il regista magiaro Bozsik commette forse l’unico errore in carriera, perde palla, Helmut Rahn indovina il tiro della vita: la Germania è campione del mondo. Una vittoria che è un messaggio, che esalta un popolo – quello tedesco – che dopo quasi dieci anni sente risuonare in pubblico il proprio inno nazionale, bandito dalla fine della guerra. Rinascere si può, reagire alle difficoltà fa parte dello spirito indomito dei tedeschi, e non è quindi affatto esagerato sostenere che si, forse ha ragione chi dice che l’intera Germania rinasce in quel pomeriggio di Berna. E anche se nei mesi successivi si parlerà di doping tedesco per via dei numerosi casi di epatite che sopraggiungono ai membri della squadra campione, è indubbio che la partita la Germania l’ha vinta soprattutto grazie al suo portiere, passato in pochi minuti dalla polvere all’altare mostrando classe e soprattutto carattere da vero campione.

Turek torna nella sua Düsseldorf da eroe, trovando 100.000 persone ad attenderlo festanti. In capo a pochi mesi abbandona la Nazionale, e in capo a pochi anni fa lo stesso con il calcio, chiudendo con una stagione da riserva nel Borussia Mönchengladbach a 38 anni. Ormai realizzato, l’eroe lascia il calcio per lavorare alla stazione di Düsseldorf, ma presto quel diavolo a cui Zimmermann diceva Toni avesse venduto l’anima presenta il conto: poco più che cinquantenne, una notte, Turek viene colpito da una misteriosa paralisi alle gambe, e nel giro di poco tempo la situazione si complica. Milza e parte dello stomaco vengono rimossi, soffre di un’embolia polmonare a cui sopravvive solo grazie a numerose trasfusioni di sangue. Perde la metà del peso corporeo e l’uso delle gambe, che recupera faticosamente – e parzialmente – solo dopo quasi tre anni di cure. Il corpo del ‘Dio del calcio’ è irrimediabilmente compromesso: nel giro di pochi anni vengono fuori problemi alla cistifellea e al cuore, finisce nuovamente in carrozzina e alla fine di aprile del 1984 viene colpito da un ictus. Muore poco dopo, l’11 maggio, all’età di 65 anni, dopo aver passato gli ultimi dieci in preda a dolori e malattie. È naturale che a quel punto torni fuori quella vecchia storia di doping, ma per rispetto nessuno approfondirà mai quel discorso. E allora la Germania si limita a piangere il suo eroe, l’uomo che forse più di ogni politico e di ogni riforma economica è stato responsabile della rinascita di un Paese. Il quale, in quel giorno di maggio contro gli imbattibili ungheresi, ha imparato che è sempre possibile rialzarsi, anche dopo la peggiore delle cadute. La lezione più grande che ha lasciato al mondo Anton ‘Toni’ Turek, il ‘Dio del calcio’.

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