Calcio
TOP 11: I Capitani più rappresentativi di sempre (Italia) (1^ parte) – 17 feb
Il ruolo del Capitano è un ruolo delicato: sebbene ogni squadra e ogni allenatore abbia il proprio metodo per sceglierlo, di solito finisce per essere il giocatore più rappresentativo della squadra, colui che meglio di chiunque altro sa incarnare fedeltà, bravura, spirito di gruppo. Avere un buon Capitano può significare la possibilità di trasformare una sconfitta in vittoria, viceversa una squadra priva del giusto leader può perdersi quando la tensione si alza. La storia del calcio è piena di grandi capitani, ogni squadra ne ha avuto almeno uno storico, questo è semplicemente un mio tentativo di citare i più rappresentativi. Per togliermi da ogni imbarazzo ho deciso semplicemente di andare a istinto, scrivendo i nomi man mano che mi venivano in mente. Naturalmente ognuno di voi potrà, se vorrà, stilare la propria personale classifica tenendo conto dei parametri che più preferisce.
11 – James SPENSLEY (Genoa)
Classifica che riguarda i migliori capitani in Italia, ma apro con un inglese. Sir James Richardson Spensley aveva quasi trent’anni quando giunse in Italia come medico di bordo di una delle tante navi inglesi che frequentavano Genova alla fine del XIX° Secolo. Era un Paese, il nostro, che proprio nel capoluogo ligure stava scoprendo il calcio, e Spensley ben presto si unì ai connazionali, memore di un passato da portiere in una squadra di Stoke. Non si distinse solo per la sua bravura tra i pali: giocatore completo, agiva anche in difesa, ma era bravo soprattutto nel vedere in anticipo sui tempi. Fu lui a organizzare la prima partita tra squadre di città diverse (Genova e Torino), evento dal quale sarebbe poi nata l’attuale FIGC. Fu sempre in seguito a questo evento che nacque il primo Campionato di calcio in Italia. Spensley vi partecipò con il Genoa, che proprio su sua esplicita richiesta aveva aperto anche agli italiani, e vinse giocando la prima gara da terzino e la seconda da portiere dopo l’infortunio del compagno Baird. Spensley giocò fino a quarant’anni, continuando nel frattempo l’attività di medico e svolgendo anche il compito di allenatore e arbitro. Inoltre diede in città un forte impulso allo scautismo, e da vero mecenate si occupò dei bambini poveri della città. Da filantropo visse e da filantropo morì, in guerra, ucciso mentre assisteva un soldato nemico ferito. A lui Genova ha intitolato una targa, a lui il calcio italiano deve praticamente tutto.
10 – Guido ARA (Pro Vercelli)
Atleta perfetto, agile e potente, grintoso ma capace tecnicamente, Guido Ara fu l’anima della Pro Vercelli che in breve tempo nacque e quindi dominò il calcio italiano. Mediano destro, giocava d’anticipo ed era molto potente e aggressivo, il più “cattivo” di una squadra, le “bianche casacche”, che puntava molto sulla forza fisica e su un allenamento mirato. In carriera scelse sempre di abitare ai piani alti degli edifici per fare allenamento quando rientrava a casa dal lavoro, e fu anche un formidabile ciclista, guidando la squadra in trasferte in bicicletta lunghe anche 70 km. A lui si deve il modo di dire “il calcio non è uno sport per signorine”, frase che rivolgeva al di solito ostile pubblico avversario, che mal digeriva l’irruenza dei vercellesi. Vinse 6 Scudetti, diventando l’anima e il simbolo della “Pro” che cominciò a guidare anche da allenatore pur continuando a giocare fino a 38 anni. Per quanto fosse potente e aggressivo fu calciatore estremamente corretto ed elegante, dal talento così pure in fase di possesso palla da essere chiamato “L’elegante Guido”. In Nazionale giocò 13 gare e segnò una rete, quella valida nella vittoria contro il Belgio per 1 a 0 e che sancì la nascita di uno dei primi schemi su punizione che il calcio ricordi: il compagno Milano infatti fintò di tirare e poi si scansò all’ultimo, una cosa ovvia oggi ma che ai tempi fece scalpore. Capitano nato, fu anche coraggioso soldato e buon allenatore.
9 – Francesco CALI’ (Andrea Doria/Italia)
Nato a Catania, figlio di un ricco commerciante di vini andato in Svizzera a cercare fortuna dopo che un assalto di pirati (!) aveva ridotto sul lastrico l’attività, il giovane “Franz” s’innamorò del football praticandolo nel Paese elvetico con le maglie di Fortuna Zürich e Urania Ginevra. Al ritorno in Italia si unì con il fratello Salvatore al Genoa, ma trovandovi poco spazio e desideroso di giocare passò dopo una stagione ai rivali cittadini dell’Andrea Doria, sempre insieme al fratello portiere. Di questa squadra egli sarebbe diventato capitano e simbolo, giocandovi dai venti ai trent’anni, un decennio magro di soddisfazioni a livello di vittorie ma con un importante fiore all’occhiello: il 15 maggio 1910 la Nazionale Italiana, priva dei giocatori della fortissima Pro Vercelli, scese in campo per la prima volta nella sua storia. A guidarla proprio Francesco “Franz” Calì, il più anziano (28 anni) e l’unico a conoscere le lingue straniere. Questo fa di Calì il primo capitano di sempre della Nazionale Italiana. Dopo questa gara Franz giocò anche la successiva partita con l’Ungheria. Dopo il ritiro dal calcio giocato fu dirigente e arbitro, soldato coraggioso durante la Grande Guerra e quindi membro di diverse commissioni tecniche per l’Italia, diventando il primo “simbolo” Azzurro.
8 – Agostino DI BARTOLOMEI (Roma)
Straordinario per visione di gioco e fondamentali tecnici, Agostino Di Bartolomei crebbe nella squadra del cuore, la Roma, e ne diventò presto leader in campo e fuori. Il suo straordinario senso tattico lo faceva oscillare in modo perfetto tra la difesa e il centrocampo, il suo enorme bagaglio tecnico gli permetteva di rilanciare l’azione con enorme efficacia e di concludere egli stesso in porta dalla distanza grazie a un tiro preciso ed estremamente potente. Il suo segreto, a dispetto di mezzi fisici tutt’altro che notevoli, fu comunque l’estrema umiltà, il basso profilo e la costante voglia di migliorarsi, e in questo fu straordinaria l’influenza che ebbe nel suo gioco il tecnico Nils Liedholm, che fece di lui un Beckenbauer nostrano. Campione in campo e nella vita, capitano dello storico Scudetto ’82/’83, l’anno successivo guidò la squadra fino alla storica finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico, quando i giallo-rossi si arresero ai rigori al Liverpool. Con la partenza di Liedholm verso il Milan e il contemporaneo arrivo sulla panchina della Roma di Eriksson, che non lo vedeva adatto al suo gioco, seguì il “Barone” in rossonero. Un distacco, quello dalla sua squadra del cuore, che il giocatore non visse affatto bene, guadagnandosi l’inimicizia della curva che era sempre stata sua dopo un gol decisivo per una vittoria del Milan sulla Roma a cui fece seguito una rabbiosa esultanza, insolita per un uomo così schivo e riservato e che rivelò un profondo malessere. Nella Nazionale guidata da Enzo Bearzot, incredibilmente per un giocatore di tale spessore, non trovò mai spazio, e visse il post-ritiro finendo per ritrovarsi sempre più fuori dal sistema-calcio fino a quando il 30 maggio del 1994, esattamente dieci anni dopo la finale persa con il Liverpool, si sparò un colpo di pistola al petto morendo ad appena 39 anni. A lui il cantautore romano e romanista Antonello Venditti, grande tifoso personale, dedicherà la canzone “Tradimento e perdono”.
7 – Javier ZANETTI (Inter)
Cresciuto in fretta, Javier Zanetti aveva l’Italia nel destino – i suoi erano originari di Pordenone – ma non aveva il destino del predestinato: un medico, tale Adelmar, gli salvò la vita quando era ancora piccolo e fu così che il piccolo Javier divenne Javier Adelmar. Dal fisico gracile, crebbe quando un altro medico, quello dell’Independiente, gli consigliò una dieta a base di ceci e lenticchie. Per mantenersi fece il postino, poi aiutò il cugino a consegnare il latte all’alba, quindi il padre muratore: tutti sacrifici che lo rinforzeranno, dotandolo infine di un fisico elastico e praticamente indistruttibile, capace di giocare fino a quarant’anni e di sfondare il muro delle 1000 partite da professionista. Eppure quando arriva all’Inter, 22 anni, è il meno reclamizzato del “pacchetto” che comprende anche lo strombazzato “Avioncito” Rambert, attaccante argentino che invece finirà per essere ricordato solo come “quello che arrivò con Zanetti”. In nerazzurro si impone subito e rimarrà per tutta la vita calcistica, peraltro lunghissima: 18 stagioni, oltre 850 partite, la fascia di capitano e la conquista del Triplete che consegna quella squadra alla storia. Di lui rimane impresso praticamente tutto: l’enorme versatilità tattica, la straordinaria tenuta fisica, la velocità ed il controllo di palla con cui fa il bello e il cattivo tempo sulla fascia destra nerazzurra. Idolo, campione senza eccessi, capopopolo dalla voce bassa ma decisa. Javier Zanetti è stato il grande capitano dell’ultimo grande successo di una squadra italiana in Europa, l’esempio per chi si avvicina al calcio inseguendo i valori sani fatti di lotta, corsa e sudore. Si è fatto da solo, con fatica e fede, che non l’ha mai abbandonato anche mentre gli anni passavano e il successo veniva sempre rimandato. Infine è arrivato, a suggellare la carriera straordinaria di un calciatore raro, di quelli che ne nasce uno ogni vent’anni. Forse.
6 – Giacomo BULGARELLI (Bologna)
Facile essere bandiere nelle grandi squadre. Meno, molto meno, quando la squadra in cui fai il tuo esordio è quella del tuo cuore, insegue la gloria perduta ma poi improvvisamente tutto cambia e capisci che quella gloria non tornerà più. Giacomo Bulgarelli, straordinario regista completo in ogni fase di gioco e dotato di un senso tattico decisamente fuori dal comune, si è ritrovato a metà degli anni ’60 in questa situazione: aveva appena trascinato il Bologna alla conquista dell’ultimo Scudetto della sua storia, il presidente Dall’Ara era morto ed era ormai chiaro che per il titolo i rossoblù non avrebbero più corso. Ecco che si palesò il Milan di Nereo Rocco, che a dispetto della sua fama di difensivista intendeva schierare Bulgarelli di fianco all’astro nascente Rivera. Sarebbe stato un buon modo per guadagnare di più, vincere ancora qualcosa e magari ritrovare la Nazionale dalla quale era stato escluso, capro espiatorio della disfatta contro la Corea ai Mondiali del ’66. Non è dato sapere se Giacomino ci pensò un momento o non ci pensò affatto, fatto è che rinunciò a tutto e rimase. Al Milan andò Fogli, mentre Bulgarelli rimase nella sua città, nella “sua” squadra, trascinandola agli ultimi successi (due Coppe Italia) della sua storia. Dopo di lui il buio, e del resto era anche logico così: il Bologna non aveva più la forza economica per trattenere i suoi campioni, e non tutti erano come questo straordinario campione e ancor più straordinario capitano, che sapeva unire classe e sostanza e adeguarsi ad ogni situazione tattica richiesta. Con le sue 490 presenze è il giocatore del Bologna che più volte ha indossato il rossoblù: uno dei motivi, certo non il solo, per cui questo grande campione sarà ricordato.
Mercoledì 25 febbraio la seconda parte
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