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Calcio

Da “Foot-ball” a “Calcio”: storia del primo Campionato in Italia (2^ e ultima parte) – 01 feb

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Questo articolo è il proseguimento di un altro, uscito domenica 25 gennaio. Per scoprire chi portò il calcio in Italia e lo insegnò, dove e quali furono i primi club calcistici in assoluto nel nostro Paese e come nacquero leggete la prima parte, che troverete a QUESTO LINK

Il dado ormai era tratto. La fortunata esibizione arrivata nell’Epifania del 1898 e la conseguente unione d’intenti tra genovesi e torinesi che aveva fato sorgere quella che oggi è la Federcalcio aveva deciso: il primo Campionato di foot-ball italiano si sarebbe fatto.
Nel contesto dei mesi che lo precedettero si tengano presenti diversi fattori. Benché la F.I.F. (“Federazione Italiana Football”) contasse all’atto di fondazione sulla presenza di 7 squadre, solo 4 di queste decisero di prendere parte al primo campionato: “Unione Pro Sport Alessandria”, “SEF Mediolanum” e “Società Ginnastica Ligure Cristoforo Colombo”, infatti, preferirono restare sotto l’influenza della F.G.N.I (“Federazione Ginnastica Nazionale Italiana”) la quale aveva del resto svolto, due anni prima, quello che essa considerava il primo campionato di football in Italia. Questo era stato vinto dalla “Società Udinese di Ginnastica e Scherma”, che aveva superato in finale la “Palestra Ginnastica Ferrara” con il punteggio di 2 a 0. Tale titolo però non venne mai riconosciuto dalla federazione italiana (la F.I.F., negli anni e dopo diverse peripezie, sarebbe ovviamente diventata l’attuale F.I.G.C.) sia perché precedente alla sua formazione e sia perché i tornei che venivano organizzati dalla F.I.G.N. si svolgevano con un’interpretazione delle regole non del tutto fedele a quella britannica, mentre la F.I.F. già dal nome richiamava un forte legame con l’Inghilterra e con il suo regolamento.

Quello che veniva giocato in Italia era comunque un football assai diverso e molto più primitivo rispetto a quello che si giocava ai tempi in Inghilterra, a sua volta lontano anni luce da come lo conosciamo adesso: in Italia le partite si svolgevano su campi improvvisati o adattati alla meglio, con porte senza reti – ma con due giudici di porta per determinare se la palla fosse o meno entrata – e con palloni così duri e pesanti che i portieri, che giocavano rigorosamente senza guanti, si guardavano bene dal tentare la presa, limitandosi a calciare via la sfera o a respingerla con i pugni.
 

Nonostante la sconfitta patita in amichevole pochi mesi prima, il Genoa si presentò l’8 maggio a Torino come la compagine largamente favorita: a guidarla il leggendario James Richardson Spensley, figura chiave del calcio (e non solo, fondò anche i primi gruppi scout) in Italia dove operò come medico al di fuori del campo e come portiere, terzino, allenatore, dirigente e arbitro in ambito calcistico.
 

Principale promotore dell’apertura dei club calcistici verso la presenza di giocatori italiani nonché organizzatore della partita del 6 gennaio che aveva posto le basi per la nascita della F.I.F. e di conseguenza dello stesso Campionato Federale. Spensley fu personaggio mitico e pittoresco: appassionato di lingue antiche e culture orientali, filantropo, in vita si dedicò al sostentamento di orfani e trovatelli a Genova e morì durante la Prima Guerra Mondiale per le ferite riportate mentre soccorreva, in nome del Giuramento di Ippocrate, un soldato tedesco nemico che giaceva a terra in fin di vita. Questo sarebbe accaduto però diversi anni dopo: nel 1898 Spensley si presentò, trent’anni compiuti da poco, come uno dei più forti giocatori in Italia.

 

 

Qualche mese prima del torneo, sulle panchine davanti al Liceo “Massimo D’Azeglio” di Torino, un gruppo di studenti appassionati del nuovo sport giunto dall’Inghilterra aveva fondato la Juventus. La squadra, che in seguito sarebbe diventata la più forte e vincente d’Italia, non prese però parte al primo campionato federale, che pur si disputò nel capoluogo piemontese, in quanto formazione troppo giovane come nascita e che ancora non godeva della necessaria credibilità. Il suo primo eroe è Enrico Francesco Pio Canfari, giocatore, presidente, arbitro e guardalinee prima di diventare soldato e morire sull’Isonzo durante la Grande Guerra.

 

A partecipare al campionato, dunque, oltre al Genoa furono tre squadre di Torino: la “Reale Società Ginnastica di Torino”, che si occupava ancora prettamente di ginnastica e sport affini; il “Football Club Torinese”, che sfoggiava una divisa a strisce oro e nere; e infine la più forte di tutte, “l’Internazionale Torino”, squadra sorta a seguito delle lunghe sfide amichevoli tra il “F.C. Torino” di Edoardo Bosio e i “Nobili Torino” del Duca degli Abruzzi, che magnanimamente offriva la coppa in palio quell’8 maggio. Si sarebbe giocato, in un’unica giornata, al “Velodromo Umberto I”, il cui campo aveva dimensioni quasi doppie rispetto a quello di Ponte Carrega del Genoa, e l’occasione era garantita dal cinquantenario dello Statuto Albertino.

50 persone si presentarono ad assistere alle semifinali disputate al mattino: nella prima gara, giocata alle 9, l’Internazionale superò il F.C. Torinese (dal quale, appena due anni dopo, sarebbe stata assorbita) con il punteggio di 1 a 0. In mancanza di tabellini ufficiali, resta incerto il nome del marcatore del gol decisivo: chi lo attribuisce allo stesso Edoardo Bosio già primo italiano a importare il calcio e chi – come l’autorevole storico di calcio italiano John Foot – al marchese John Savage, che era stato il mattatore del Genoa nell’amichevole del 6 gennaio e che in seguito sarebbe stato una delle prime stelle della Juventus. Può benissimo darsi che non sia stato nessuno dei due e che questi nomi siano semplici suggestioni, dato che nella seconda gara disputata subito dopo alle undici il Genoa superò la Reale Società Ginnastica per 2 a 1 senza che a noi siano giunti i nomi certi di chi segnò. Al termine della seconda semifinale vi fu un pranzo al sacco direttamente sul campo, e solo dopo panini e bicchieri di Barbera lo spettacolo riprese. 

Nel frattempo la curiosità intorno alla sfida era cresciuta, il pubblico raddoppiato e così l’incasso: alla finale tra Genoa e Internazionale Torino assistettero un centinaio di spettatori. Di questa gara i dati sono più precisi. 

Si conosce ad esempio il nome dell’arbitro, tale Adolf Jourdan, britannico che a Torino aveva fatto fortuna con un negozio di abbigliamento e scarpe. Fu nel comitato fondatore dell’Internazionale Torino e fu proprio nella sede del suo negozio che fu fondata la Federazione Italiana Football. Essendo ancora in vigore il tipico “fair-play” britannico, nessuno osò anche solo sospettare di un suo favoreggiamento verso la propria società di appartenenza, e in effetti le cronache raccontano di un arbitraggio giusto. Jourdan, già anziano all’epoca, sarebbe morto nel giro di pochi anni, come si evince dalla medaglia d’oro in suo ricordo che la FIF donò ai vincitori del torneo del 1902 e che ne indica la scomparsa in una data anteriore.

Alle 15 dell’8 maggio 1898, dunque, Genoa e Internazionale Torinese si giocano il titolo di primi Campioni d’Italia di football. I tempi regolamentari si chiudono in parità grazie alle reti di Bosio da una parte e di Spensley dall’altra, e nei supplementari è il Genoa a prevalere con una rete di Leaver. I liguri sono dunque i primi Campioni d’Italia, un successo meritato in virtù di un ottimo mix per l’epoca di potenza fisica e classe e del fatto di aver giocato buona parte della gara in inferiorità numerica per l’infortunio patito dal portiere Baird, sostituito da Spensley tra i pali. La foto che ritrae la squadra vincente la mostra in maglia bianca, visto che ancora il rosso-blù dev’essere adottato come colore ufficiale del club.

In porta spicca William Baird, che nonostante le due reti subite è indicato dai presenti come uno dei migliori giocatori visti in campo. La sua abilità aveva in effetti convinto Spensley ad abbandonare il ruolo di portiere per agire da terzino. La sua carriera si concluse con quella finale, a cui peraltro prese parte parzialmente per via di un infortunio. Spensley, di cui abbiamo già parlato, si era spostato dunque in difesa, dove al suo fianco giganteggiava l’altissimo (per l’epoca, ben 190 centimetri) Ernesto De Galleani, uno dei primi italiani del Genoa: padre italiano e madre inglese, era di nobili origini e fu difensore valido e banchiere di successo prima di morire ancora giovane di broncopolmonite. Insieme a Spensley vinse anche gli Scudetti del 1899 e del 1900, quindi si trasferì in Scozia per motivi di studio. I mediani erano Fausto Ghigliotti e Ettore Ghiglione, entrambi genovesi. Il primo, figlio di uno spedizioniere, si era appassionato al calcio giocando con i marinai che lavoravano con il padre e in seguito sarebbe stato anche portiere del Genoa. Il secondo, invece, era figlio di un commerciante, aveva la madre inglese ed era così appassionato di calcio a 360° che in futuro avrebbbe arbitrato la finale del Campionato del 1902 prima di tornare a giocare vestendo la maglia del Torino. Centromediano era il mitico Edoardo Pasteur: socio fondatore del club, la famiglia di origine svizzera era imparentata con il famoso batteriologo Louis Pasteur ed un fratello, Enrico, giocava anch’egli nel Genoa. Il “Grifone” fu la sua vita, ne fu dirigente e arbitro e fu tra i promotori della costruzione dello Stadio “Luigi Ferraris”. Il quintetto d’attacco infine (la squadra era schierata, come tutte le altre, con il 2-3-5 in voga all’epoca noto anche come “La Piramide di Cambridge”) era ben assortito: a sinistra agiva Norman Victor Leaver, autore del gol della vittoria in finale, mentre a destra operava il baffuto John Quertier Le Pelley, armatore di navi proveniente da Guiseley, isola tra la Gran Bretagna e la Francia che un secolo dopo la sua nascita avrebbe dato i natali anche al grande Matthew Le Tissier. In mezzo alle ali, i due interni: Giovanni Bocciardo e Silvio Piero Bertollo. Entrambi figli di famiglie ricche, entrambi calciatori una tantum, erano comunque abbastanza abili nel rifornire il centravanti della squadra, che era il leggendario Henri Dapples, potente e coraggioso centravanti portato più alla lotta che alla finalizzazione: la sua famiglia era nobile ed era stata coinvolta nei primi vagiti del calcio italiano a Torino, ed egli stesso passò alla storia quando il giorno del suo ritiro mise in palio un trofeo, “La Palla Dapples”, che appassionò moltissimi club nei primi anni del calcio italiano.

In pochi sapevano che quel giorno era nato qualcosa che sarebbe rapidamente diventato lo sport principale in Italia e nel mondo. Che tutto fosse diverso allora lo si nota da molti particolari: oggi in Italia abbiamo tre principali quotidiani che si occupano solo di calcio, mentre poche invece furono le cronache dell’epoca. In quei giorni l’attenzione dell’Italia era rivolta ai “moti di Milano”, stroncati nel sangue e a colpi di artiglieria dal Regio Esercito guidato dal generale Bava Beccaris e che portarono alla morte di circa mezzo migliaio di persone. Ci volle del tempo affinché gli italiani si appassionassero al nuovo sport, ma ormai il processo era in moto e non poteva più essere fermato.

 

Nel 1899 un socio dissidente dell’Internazionale Torino, Herbert Kilpin, si spostava a Milano e fondava il Milan. La sua maglia sarebbe stata rossa come il fuoco e nera come il terrore che avrebbe dovuto incutere negli avversari, e il suo soprannome – “il Diavolo” – sarebbe derivato proprio da Kilpin, protestante in terra cattolica.
 

Da un gruppo di dissidenti fuoriusciti dal Milan in quanto contrari alla graduale chiusura verso gli stranieri da parte della società sarebbe poi nata nel 1908 l’Internazionale di Milano. Colori e simbolo sarebbero stati disegnati dal pittore Giorgio Muggiani, e l’obbiettivo della squadra sarebbe stato quello di essere “fratelli del mondo”: di forte matrice svizzera, fin da subito il suo gioco fu più elegante di quello dei cugini rossoneri del Milan, e fu così che divenne la squadra dei borghesi mentre il club di Kilpin, per la sua maggior foga agonistica tipicamente britannica divenne il club viicno al popolo operaio. Mentre il primo idolo calcistico del Milan fu il fondatore Kilpin, autentico asso dell’epoca, il primo mito nerazzurro fu Virgilio Fossati: capitano e allenatore della squadra del primo storico Scudetto nerazzurro, morì ucciso dagli austriaci durante la Prima Guerra Mondiale. Fu anche il primo giocatore dell’Inter ad essere convocato in Nazionale nel 1910. 

 

 

Nello stesso anno, per volere dell’illuminato dirigente Luigi Bozino, figlio di un agente segreto al servizio di Cavour, si formava la sezione calcistica della Società Ginnastica Pro Vercelli, che avrebbe segnato i primi anni del calcio italiano con una squadra impareggiabile prima di sprofondare nelle leghe minori quando il calcio divenne professionistico e le grandi squadre metropolitane depredarono le “bianche casacche” dei suoi numerosi campioni.
 

A Torino a suon di fusioni si arrivava nel 1906 alla nascita dell’attuale Torino Football Club nel quale confluivano ex-membri di quella Juventus nata nei mesi precedenti quel primo campionato federale.

Intanto, a Firenze, nelle ville inglesi il football era uno sport privato: nasceva il “Florence Football Club”, che solo nel 1926, unendosi ad altre società locali – “Palestra Ginnastica Fiorentina Libertas” e “Club Sportivo Firenze” – avrebbe dato vita alla Fiorentina.

Qualche anno prima, nel 1909, un austriaco di origini ebree, Emilio Arnstein, univa la sua passione per il gioco alle forti doti organizzative di un odontoiatra svizzero, Louis Rauch, creando il Bologna.

Un anno dopo, nel 1910, la Nazionale Italiana – in maglia bianca – faceva il suo esordio assoluto sconfiggendo la Francia per 6 a 2 con una tripletta del milanista Pietro Lana.

Negli stessi anni il calcio si era esteso anche al Sud, ed erano nate in rapida successione Lazio, Roma e Napoli. Nonostante l’Italia fosse un Paese cattolico, il giorno del calcio diventava la domenica, essendo quello in cui sia gli spettatori che gli stessi giocatori si trovavano liberi da impegni lavorativi. I tempi dei milioni e delle televisioni sarebbero arrivati, ma ancora si parlava solo, come a Bologna, di “quattro matti che corrono dietro a una palla”.

Il resto è storia. Del football, che presto sarebbe diventato calcio, e del nostro Paese.

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