La resurrezione dell’Aquila fortitudina, che per l’occasione assume le sembianze di una fenice, abbraccia due stagioni sportive, quelle di D.N.B. 2013/14 e 2014/15. Un processo lungo ma, a posteriori, un’inezia dopo tre interminabili anni di buio, caratterizzati da divisioni, opposte rivendicazioni ed una generale e crescente sensazione di vuoto talmente incombente sotto i portici bolognesi da dare adito a controverse imitazioni, spazzate vie senza eccessivi rimpianti quando, nell’estate 2013, la Fortitudo rinasce sotto l’egida del “garante” Marco Calamai e del presidente Dante Anconetani.
Come voleva una larga parte del pubblico biancoblu, la nuova società Fortitudo Pallacanestro Bologna 103 è una creatura vergine, un contenitore immacolato nel quale confluiranno, senza falsi storici, tradizione e simboli dell’Aquila, con l’imprescindibile avallo della “casa madre” S.G. Fortitudo di via San Felice.
Dopo mesi di mediazioni, la nuova creatura, quantomeno fuori dal campo, pare funzionare immediatamente, a dimostrazione dell’irrefrenabile voglia di Fortitudo che palpita in città: all’esordio al PalaDozza il 6 ottobre 2013, davanti ad una Pavia di cui, con tutto il rispetto, quasi nessuno sarebbe stato in grado di elencare il nominativo di un solo giocatore, si presentano 4.500 persone, record all time per una quarta serie.
Sono numeri che quasi rimandano ai fasti delle finali scudetto, probabilmente esagerati per il contesto cestistico in cui si manifestano. Infatti, benché alla prima uscita verrà strappata una sofferta vittoria, i ragazzi che scendono in campo appaiono catapultati in una realtà troppo più grande di loro, tanto che durante la stagione in più occasioni si diranno addirittura inibiti (sigh!!) da cotanto spettacolo sugli spalti (e l’epilogo stagionale dimostrerà chiaramente che quella maglia ha un peso che non tutti possono permettersi di reggere).
Ma se il percorso di risalita sportiva al primo anno è destinato ad incagliarsi quasi subito in un’infausta serata centese, il dato più rilevante è quello che balza agli onori della cronaca locale e nazionale: dopo oltre 1.200 giorni dal canestro di Malaventura a Forlì, la Fortitudo è tornata.
Rifondati i pilastri della neonata realtà sul proprio popolo ritrovato, è evidente che anche il campo debba dare adeguati riscontri, per cui nell’estate 2014 viene rivoluzionato l’intero roster guidato dallo sfortunato duo Tinti-Politi: inizia così a plasmarsi la squadra che per le successive due stagioni, nonostante un doppio salto di categoria, immedesimerà perfettamente la fame della propria gente, facendosi trascinare oltre i propri limiti fino a sfiorare un’impresa a dir poco impronosticabile.
A guidare le danze in cabina di regia torna il capitano Davide Lamma, che viene affiancato da un’altra coppia di giocatori dal comprovato DNA fortitudino: Gennaro Sorrentino, unico reduce dell’annata precedente, e Matteo Montano, prodotto di casa che mai aveva reso per quanto promesso, ma che nel successivo biennio esploderà letteralmente tanto da guadagnarsi con pieno merito un posto fisso nella seconda serie nazionale.
A centro area, la storia dei successi dell’Aquila insegna che serve un vero totem e la scelta ricade proprio in casa di chi la famiglia biancoblu l’ha già vissuta: il romano Andrea Iannilli, genero d’arte dell’indimenticabile (ed indimenticato) Zio Bello Vrankovic.
Attorno a loro ruotano Davide Raucci e, dal mese di febbraio, Nazzareno Italiano, due giocatori dalla difficile collocazione tattica, ma che con sudore ed impegno riusciranno a guadagnarsi l’imperituro rispetto del popolo fortitudino, ben più di molti loro predecessori magari dotati di maggior talento ma incapaci di incarnare i valori e lo spirito battagliero dell’Aquila.
Il ruolo di 4 titolare spetta a Giuliano Samoggia, gracilissima macchina da canestri esperta della categoria, nel corso della stagione messo a durissima prova da svariati acciacchi fisici, ma poi risbocciato come un fiore di primavera nella torrida final four di Forlì, dove dominerà la Mens Sana Siena e regalerà da MVP la tanto ambita promozione.
Non riusciranno invece a riprendersi pienamente dai rispettivi guai fisici la guardia Jacopo Valentini, per almeno metà stagione equilibratore fondamentale della squadra, salvo poi gradualmente perdersi in un tunnel di litigi con il ferro, ed il pivot Alessandro Mancin, lungo di riserva pressoché costantemente ai box, divenuto suo malgrado celebre per l’espressione coniata nello spogliatoio “sto da Mancin”, utilizzata per rappresentare un qualsiasi stato di malessere invalidante.
La squadra, affidata all’elegante coach Vandoni – di cui tutt’oggi si ricorda un’ambitissima cravatta per lungo tempo introvabile negli stores fortitudini – si destreggia nel girone B del quarto campionato nazionale, ma è evidente che le manchi ancora qualcosa per competere ai vertici del campionato.
Si vocifera addirittura del presidente Anconetani accerchiato nei corridoi del PalaDozza da alcuni audaci tifosi che gli suggerirono di ingaggiare Giacomo Galanda, all’epoca neoquarantenne e ritiratosi da pochi mesi, ricevendo per tutta risposta lo scoop, sempre gelosamente conservato, di vani contatti con un tale Gianluca Basile per un clamoroso ritorno.
Indiscrezioni mai ufficialmente confermate, fatto sta che la vera svolta stagionale arriva quasi all’improvviso un giorno di febbraio, con l’avvicendamento in panchina del pur benvoluto coach Vandoni con Matteo Boniciolli, cavallo di ritorno destinato, a 13 anni di distanza dalla prima sfortunata parentesi biancoblu, ad entrare a pieno titolo nell’Olimpo della Storia fortitudina.
La prima mossa del nuovo coach è inserire stabilmente in rotazione un giovane virgulto nemmeno diciottenne, tal Leonardo Candi, che dopo pochi anni calca i parquet di massima serie ed è ormai nel giro della nazionale maggiore. In aggiunta, viene acquistato il dottor Marco Carraretto, tiratore specialista già avversario in maglia verde di mille battaglie di una pallacanestro più lussuosa, ma che a Bologna troverà una nuova giovinezza come chioccia di una gruppo di giovani terribili, per poi confermarsi nelle attuali vesti di dirigente.
L’arrivo di coach Boniciolli, come spesso accaduto nella sua carriera, è una vera e propria scarica elettrica per l’intero ambiente: i giocatori vengono fisicamente “massacrati” (cit.), ma l’intensità messa in campo schiaccia gli avversari e la squadra vola fino ai playoff con una convinzione ed un entusiasmo sempre più dilagante.
Si narra di due rispettabili professionisti avvistati a dimettere in tutta fretta gli abiti lavorativi all’interno di un’auto posteggiata sui viali bolognesi e, benché in piena giornata feriale, avventuratisi attraverso le languide campagne bresciane alla volta del PalaGeorge di Montichiari. Qualunque fosse stata la scusa pubblicamente accampata per divincolarsi dai rispettivi impegni lavorativi (e le conseguenze da affrontare per tale avventata fuga), entrambi dichiarano che ne valse comunque la pena: i due assistettero ad una palpitante gara 3 di semifinale contro l’ambiziosa squadra di casa, ove troneggiava una delle ultimissime versioni di quel Denis Marconato baluardo nemico di antiche battaglie e nell’occasione irretito da un diciannovenne di nome Giovanni Lenti, coraggiosamente lanciato nella mischia da coach Boniciolli per sostituire l’infortunato Samoggia.
Nota a margine: anche in quell’occasione, erano almeno in 700 i tifosi accorsi per invadere il campo di Montichiari e festeggiare l’accesso alle final four per la promozione.
E molti di più saranno quelli che si riverseranno sugli spalti e a bordo campo al PalaFiera di Forlì pochi giorni dopo, per riprendersi sullo stesso campo, in una sorta di ponte temporale, quello che Lamma e compagni avevano già guadagnato esattamente cinque anni prima, ma che era stato loro tolto da questioni affatto attinenti le dinamiche del parquet.
Parrebbe la perfetta sceneggiatura di un film, ma è solo la Fortitudo.
Post Fata Resurgo.
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