Calcio
Tutto calcio che Cola #30: “Mané” Garrincha, “la gioia del popolo” – 28 ott
Ripropongo oggi parte di un articolo da me già pubblicato nella “Storia dei Mondiali di Calcio”. Oggi, esattamente 81 anni fa, nasceva quello che è stato un giocatore tra i più importanti della storia del calcio, per molti superiore persino a Pelé e Maradona, un campione tanto forte sul campo quanto fragile nel privato, che nella storia di questo sport fu quasi una meteora ma dall’accecante bellezza. Garrincha, “la gioia del popolo”.
Quando, nel 1958, il Brasile stava allestendo una squadra capace finalmente di vincere la Coppa Rimet, il CT Vicente Feola mise nella sua lista circa duecento calciatori: questi vennero mano a mano scremati seguendo diversi parametri, come tecnica, carattere, adattabilità, fino a quando non furono scelti i 22 “eletti”: tra questi non doveva esserci Manoel Francisco dos Santos detto “Garrincha”. Certo, aveva una tecnica di prim’ordine, forse addirittura la migliore di tutto il Brasile. Il carattere era gioviale, il ruolo (ala classica) addirittura imprescindibile ai tempi. E allora?
Allora il medico del Brasile aveva riscontrato due difetti non da poco in quell’ala funambolica. Primo: mentalmente era ritardato. Non era chiaro se fosse un problema mentale oppure (più probabilmente) l’essere cresciuto in uno stato quasi selvaggio: il padre forte alcolista, la madre spesso malata, il tempo passato a nuotare nei fiumi e dare la caccia agli uccellini oltre che nel prendere a calci un pallone. Ad andar bene, Garrincha poteva essere definito un sempliciotto, portato inoltre già allora a bere e tabagista dall’età di 10 anni.
Secondo problema: il fisico. Che più sghembo non sarebbe mai stato rivisto su un campo di calcio. La gamba sinistra più lunga della destra, il ginocchio destro curvo verso l’interno, il sinistro verso l’interno, il bacino sbilanciato. Pure leggermente strabico! Un disastro. Come aveva fatto a diventare professionista un disgraziato del genere?
La risposta, al CT Feola, la diedero i compagni: “Mister, lo ha visto giocare?”
Garrincha è stato il più grande interprete, nella storia del calcio, del ruolo di ala. Il fisico sbilenco e improbabile, invece che rivelarsi uno svantaggio, lo rendeva semplicemente inarrestabile quando fuggiva sulla fascia. Inutilmente gli avversari raddoppiavano, triplicavano, la marcatura su di lui: non c’era niente da fare, lui puntava ogni rivale e lo saltava con una finta che solo le sue gambe storte e diseguali potevano disegnare, una finta che nessuno poteva neutralizzare e che lo portava inesorabile ad arrivare nei pressi della porta. Da lì era un gioco da ragazzi segnare oppure servire ad un compagno un pallone che andava solo accompagnato in rete. Per il suo carattere ingenuo e giocoso fu soprannominato “La gioia del popolo”, per molti fu inferiore solo a Pelé, per qualcuno lo sopravanzò anche.
Fu grande protagonista anche ai Mondiali del ’58, ma fu in quelli di Cile nel ’62 che raggiunse la sua massima vetta di splendore: con Pelé fuori dalla seconda gara, prese il Brasile sulle sue fragili spalle e lo portò fino alla vittoria finale, segnando 4 reti e servendo assist come se piovesse. I gol furono equamente divisi (2 a gara) tra quarti di finale e semifinale, vittime i maestri dell’Inghilterra e i padroni di casa del Cile. Quel Mondiale fu, senza dubbio, vinto principalmente da lui, “Mané”, che aveva trovato nel calcio un riscatto che il suo fisico improbabile ed il suo basso quoziente intellettivo non avrebbe potuto trovare altrove e che lo avrebbe condannato ad una vita povera ed anonima.
Morì presto, nemmeno cinquantenne, piegato dall’alcol che gli causò una cirrosi letale. Ebbe quindici figli, morì comunque in povertà visto che non era capace di amministrare quanto guadagnava e sovente sperperava allegramente i soldi che i compagni tentavano di fargli mettere da parte.
“Mané Garrincha visse i suoi ultimi venti anni totalmente avulso dalla società. Affondò nell’alcolismo, restò incapace di rapportarsi con ognuno dei quattordici figli che lasciò sparsi per il mondo. Bistrattato dalle compagne, sveniva per le porte delle osterie, dormiva per i marciapiedi, era accolto da omosessuali e sopravviveva solamente grazie ai favori e alla filantropia del potere pubblico.”
(Telmo Zanini in Mané Garrincha)
Se ne andò nella miseria e nell’alcolismo, malato e pieno di debiti che di volta in volta venivano pagati da amici e fans. Morì la notte del 19 gennaio del 1983, in seguito ad un acuto attacco di cirrosi conseguenza di tre giorni passati a bere, ormai solo e disperato. Aveva 49 anni.
Le sue ossa riposano in un cimitero dimenticato da molti. Sull’epitaffio la scritta “Qui riposa in pace colui che fu La Gioia del Popolo, Mané Garrincha”, a ricordare quello che fu uno dei più fenomenali giocatori della storia del calcio, che nonostante la vita non gli avesse dato i mezzi per emergere riuscì a scrivere a caratteri cubitali il suo nome nella leggenda di questo sport.
Un campione immenso e un uomo così semplice che, quando il Presidente del Brasile convocò i giocatori campioni del mondo promettendo di esaudire loro qualsiasi desiderio, dopo che i compagni chiesero auto, case e soldi si rivolse al Presidente candidamente, affermando che il suo desiderio era che l’uccellino che questi teneva in gabbia in ufficio venisse liberato.
Garrincha, il fragile uccellino che volava via imprendibile sulla fascia.
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