Basket
Alberto Bucci, una guida nello sport e per la vita
Non ha mai avuto l’atteggiamento ma soprattutto i pensieri da primo della classe, eppure ha vinto come pochi altri, da allenatore: tre scudetti (tutti targati Virtus), quattro Coppe Italia (di cui l’unica nella storia con una squadra di A2, la Glaxo Verona), la Supercoppa italiana, senza stare a contare le tante promozioni in campionati superiori, mentre sul piano internazionale ha dovuto aspettare l’esperienza della Nazionale Master per aggiudicarsi il titolo mondiale Over 45. Il mio ricordo personale va a quando era l’allenatore delle giovanili Fortitudo, nei primi anni settanta, dove poi capitò quasi per sbaglio in prima squadra nell’anno infelice della prima retrocessione sul campo, con successivo ripescaggio, dei biancoblu. Il ricordo è quello di una figura dallo straordinario carisma, che lo faceva apparire come un maestro non solo per i giovani giocatori ma anche per gli altri allenatori, nonostante i problemi fisici che nell’immaginario un po’ gretto di quei tempi in teoria avrebbero dovuto relegarlo ai margini di una attività sportiva agonistica. Da lì partì una carriera che ha conosciuto trionfi straordinari, vissuti però sempre come colui che ritiene che vivere bene sia essere contenti di quel che viene, pensando di essere stati ripagati oltre quello che ci si aspettava.
Presidente, in Virtus, lo era già stato, temporaneamente e a sorpresa, nel 1996, quando ancora era l’allenatore dell’allora Buckler, confermandosi uomo dei momenti difficili, con Cazzola che stava interrogandosi su cosa fare della società bianconera. Nel 2016 ha come subito il richiamo della foresta: la Virtus, in difficoltà come quasi mai in passato, aveva bisogno di quel suo carisma, di quel suo buon senso, della sua competenza tecnica ma soprattutto umana; si è presentato con una dichiarazione: “Andare a una festa con l’amico è facile, quando l’amico è malato fai più fatica ad andarlo a trovare”. Con coerenza, nonostante l’insuccesso sportivo non si è ritirato per occuparsi dei propri problemi di salute ma è voluto restare per ricostruire: “È stato un immenso dispiacere. L’ho vissuto dentro, nell’anima, ma ho cercato di pensare subito che non devi mai piangerti addosso. Bisogna fermare le lacrime e i pianti. Più tempo perdi e meno tempo hai per sistemare le cose”.
Nel Pantheon virtussino ricoprirà un ruolo forse secondo solo a quello dell’avv. Porelli, per quello che ha rappresentato come figura vincente (suo pure il titolo della stella, giunto in tempi peraltro inattesi anche grazie alle sue doti di allenatore) ma soprattutto come uomo, una guida rara nel mondo sportivo. Nonostante la Virtus, da giovane, lo avesse respinto per i suoi problemi a camminare: “È vero e mi era dispiaciuto, poi incontrai Beppe Lamberti e mi disse che mi avrebbe fatto allenare tutte le squadre del settore giovanile della Fortitudo. Quel rifiuto e quell’esperienza mi hanno insegnato il rispetto per il lavoro degli altri ed è il motivo per cui io auguro alla Effe di salire l’anno prossimo. Noi dobbiamo abituare il nostro pubblico, che è fantastico, al rispetto reciproco: godere della propria vittoria non implica compiacersi della sconfitta dell’avversario. Non è nelle mie corde: io sto bene quando vince la Virtus, ma non sono contento se hanno perso gli altri. Non ho invidia per nessuno, ho smesso di odiare perché perdi tempo, stai male tu e chi è odiato gode nel farti star male. Non posso preoccuparmi di chi non mi vuole bene”. (da una intervista al Resto del Carlino).
Alberto Bucci non mancherà solo a Bologna. Il ricordo di lui resterà indelebile a Livorno, a Verona, a Rimini, Pesaro, Fabriano, ovunque abbia lavorato e conquistato inevitabilmente la gente. E crediamo in tutto l’ambiente sportivo, non solo quello cestistico. Ma la Virtus, per lui, è rimasta un’altra cosa, “la compagna di un bellissimo viaggio, che prima o poi so che finirà. A volte finisce perché vai via, a volte perché la vita finisce. Mi ha dato tanto perché quando sono arrivato ho vinto lo stella e nel tempo è diventata un’amante, un’amica, una sorella o una figlia. Sono andato e ho allenato e lavorato da altre parti, ma per me la Virtus è diventata tutto.”
La commozione, in questi momenti, non è solo un esercizio retorico.
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