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Tutto calcio che Cola #23: Il calcio italiano e le facili soluzioni – 10 ago

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Non sono mai stato un sostenitore del “giovane a tutti i costi” o del “meglio gli italiani” nel calcio, anzi. Spesso ho discusso con le persone dalle facili soluzioni sul fatto che se sei un vero campione emergi, così come del fatto che viviamo in un mondo globalizzato dove non ha senso imporre limiti agli stranieri, alla libera circolazione di qualsiasi tipo di lavoratore. Del resto il calcio si è sempre evoluto e sempre lo farà, e non è che gli anni in cui le frontiere furono chiuse calcisticamente, in Italia, fossero anni d’oro. Fu semplicemente una delle tante “facili soluzioni” che nel nostro Paese spesso prendono il posto del buon senso o di una riflessione più ragionata e mirata a risolvere i problemi alla base, diede i suoi frutti fino ad un certo punto e comunque i buoni risultati che il nostro calcio ottenne internazionalmente in quel periodo difficilmente possono essere ascritti alla rinuncia a campioni stranieri.
Eppure certi movimenti di mercato che riguardano la nostra Serie A riescono a convincermi che forse “gli esperti da bar” a volte hanno ragione: un calcio in crisi come il nostro non approfitta infatti del (secondo consecutivo) tonfo della Nazionale ai Mondiali e dell’ormai risibile credibilità che i nostri club hanno in Europa per ripartire da capo, ricominciare da zero, ma anzi raffazzona come sempre un po’ alla buona agitandosi tanto per poi – nella pratica – non cambiare niente.

Si discute, infatti, di Tavecchio e Albertini. Di come non sia il caso di votare il primo per alcune frasi infelici, di come non sia il caso di votare il secondo solo perché non piace il primo. E allora spunta il commissario. Ma non piace nemmeno il commissario, perché vuoi che non salterebbe fuori che tifa per questo e odia quello? Non sono così addentro alla vicenda, perché sinceramente un po’ mi annoia e molto covo la certezza che il problema non sia chi dirige la Federcalcio ma proprio chi la compone.
Già, perché nella pratica tutto sarebbe estremamente semplice, almeno a grandi linee: una Serie A più snella (18 squadre) e dunque più competitiva, una pausa invernale che concentri le forze sul mercato e sul recupero di energie che immancabilmente mancano nelle battute finali di ogni stagione, un limite massimo di giocatori utilizzabili ed uno minimo di giocatori cresciuti in Italia che ogni squadra deve obbligatoriamente avere. Magari un “campionato riserve”, che effettivamente a livello economico non servirebbe a niente ma che aiuterebbe i giovani a farsi le ossa e chi è invece fuori da un progetto tecnico di mantenersi in forma giocando invece che restando ai margini del campo. Infine, passo fondamentale, una più equa retribuzione dei diritti TV, che in un campionato sono tutti protagonisti e chi ha più seguito in fondo guadagna (o dovrebbe guadagnare) di più anche dal merchandising e dallo stadio. Che dovrebbe essere di proprietà, ma qui si entrerebbe in una serie di problemi non solo calcistici ma anche politici e culturali, e quindi è un discorso che può almeno per il momento essere accantonato, che del resto tutto questo parlare di “stadi di proprietà” (per quanto siano iniziative lodevoli) secondo me distoglie da problemi ben più seri.

Una facile soluzione, quindi. Almeno per me, che non sono un espertone, ma una soluzione che penso condividano in molti tra tifosi e addetti ai lavori. E allora perché niente si smuove? Perché – ahimé – siamo in Italia. Dove i problemi sono sempre gli stessi da decenni solo che ora ci sono meno soldi, dove quando qualcosa cambia lo fa per rimanere la stessa cosa: politicamente (ma non è un campo in cui mi addentrerò), culturalmente e anche calcisticamente. Un discorso, quello sull’immobilità del nostro Paese, così trito e ritrito che oggettivamente a farlo si corre sempre il rischio di essere presi per faciloni, gente a cui piace generalizzare, mentre purtroppo è un’amara realtà. Quando in Germania si sono accorti che la Nazionale esprimeva una squadra sempre più vecchia e i giovani di talento erano veri e propri “Gronchi rosa”, tutti i club professionistici si sono riuniti intorno ad un tavolo ed hanno agito in concerto. Rinunciando ognuno a qualcosa in base alle proprie possibilità, sono arrivate le accademie, la riforma delle proprietà dei club e degli stadi, il rilancio del prodotto calcio. I risultati non sono stati immediati, ma nel medio-lungo periodo tutto il movimento ne ha guadagnato, portando così i club e la Nazionale sul tetto del mondo. Da dove, è lecito crederlo, difficilmente scenderanno, vista la giovane età di tanti protagonisti di Europa League, Champions League e Mondiali. 
L’Inghilterra, del resto, non era quel campionato dove un talento a metà della nostra Serie A come Benny Carbone furoreggiava non più di quindici anni fa? Bene, sono arrivate le regole sugli stranieri ma solo di talento, sul numero minimo di giocatori britannici in rosa, e se è vero che la Nazionale non ha avuto miglioramenti significativi è vero anche che in Europa qualche frutto è arrivato, e soprattutto ne ha guadagnato in appeal e ricchezza la Premier League, probabilmente al giorno d’oggi il torneo calcistico più bello e appassionante al mondo. 

Invece qui tutto tace. Abbiamo perso male ai Mondiali, ed è stata ovviamente solo colpa di Prandelli e Balotelli. Abbiamo avuto un campionato, l’ultimo, che ha visto la Juventus fare ben 102 punti ma fallire in Europa e la Roma giunta seconda distaccare di ben 60 punti l’ultima in classifica. Quarta è arrivata una Fiorentina senza attaccanti, quinta un’Inter che non ha mai trovato il bandolo della matassa, tatticamente parlando. E in coda la situazione è stata persino più imbarazzante, con squadre come Bologna e Catania che pur avendo vinto un pugno di gare sono retrocesse solo nelle battute finali. E attenzione, dubito fortemente che il prossimo campionato si discosterà dai livelli di mediocrità di quello appena concluso: fossi juventino non sarei poi così preoccupato, infatti, perché nonostante la partenza di Conte (e quella probabile di Vidal) in un campionato come l’attuale Serie A un pugno di vecchi lupi di mare può ancora vincere, a maggior ragione se Allegri saprà fare di Llorente il proprio Ibrahimovic (pur se ovviamente in tono minore) sfruttando quindi le capacità di inserimento di Tevez, Marchisio e Pogba.
Ma in Europa? La Juventus ha preso Evra, la Roma Ashley Cole. Entrambe si dice puntino nientemeno che Eto’o. Un po’ poca roba per ridurre il gap e per dichiarare ottimisticamente che arrivare tra le prime 8 in Champions è possibile. E’ ovviamente possibile, e del resto l’Atletico Madrid che fino a un minuto dal termine stava vincendo la scorsa Champions non è che fosse sulla carta così superiore alla Juventus uscita ai gironi.
Ma se si vuole smetterla di vivere di exploit bisogna rendersi conto che è una questione di mentalità da cambiare. Bisogna smetterla di vivacchiare alla giornata e ripartire da zero, mostrando coraggio ed essendo disposti a pagare sulla propria pelle l’inevitabile scotto che un ricambio generazionale – e di mentalità – richiede. In Nazionale si potrebbe ricominciare da Conte. In Serie A invece da una mentalità meno egoista e tesa ad accontentare i tifosi. Perché chi scrive non pensa proprio che il 34enne Keita possa dare alla Roma più di un Bertolacci che comunque al Genoa ha dimostrato di saper dire la propria, in Serie A. E pensa pure che più che su Brillante e Marin la Fiorentina poteva puntare su Camporese, Bernardeschi, Babacar. E pur riconoscendo il talento di Alvaro Morata non crede che sulla carta questo giovane che ha un pugno di gare giocate nel Real Madrid dia più garanzie di un Berardi in doppia cifra nel Sassuolo all’esordio in A o di un Immobile capocannoniere dello stesso torneo costretto invece ad emigrare in Germania.

Che poi beato lui, a questo punto.
Diciamocelo. 

Nessuno ha la bacchetta magica. Dare fiducia ai giovani non significa che questi diventeranno dei campioni, così come dare spazio solo a stranieri di talento non produrrà come per magia più giocatori italiani di livello. Ma se nemmeno ci si prova bisognerà rassegnarsi al fatto che ormai la nostra Serie A è diventata un campionato minore, e che sarà così ancora per molti – lunghi – anni. Un tentativo, quindi, potrebbe valere la pena. 

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