Calcio
Le “giornate rosse” di Viareggio nel 1920 – 07 ago
Molto spesso si tende a credere che il calcio degli albori fosse pratica più genuina e meno esasperata dalle masse di quanto accade ai giorni nostri. Ciò è vero in parte: la storia ci insegna che anche molto prima dell’avvento del professionismo, e in partite in cui la posta in palio era quasi esclusivamente l’onore campanilistico, non mancarono episodi di violenza eclatanti. Il primo di questi fu senza dubbio quello delle “giornate rosse” di Viareggio, che nel maggio del 1920 vide la città toscana insorgere contro lo Stato. La causa? Una partita di calcio, un “derby” con i vicini rivali della Lucchese.
Quello di quegli anni era un football molto diverso da quello odierno: i calciatori erano dilettanti e, soprattutto ai livelli in cui giocavano le due compagini toscane, ben poco conosciuti al di fuori della città. Il pubblico tuttavia cominciava ad appassionarsi in modo netto a quello sport portato in Italia poco più di vent’anni prima, e già erano sorti i primi club di tifosi organizzati, che seguivano cioè la propria squadra in casa e in trasferta.
Ad aprile, la Lucchese aveva regolato senza problemi il Viareggio in casa propria: niente di strano, visto che i rossoneri erano decisamente più forti e non avevano mai perso contro i rivali bianconeri. Tuttavia i tifosi lucchesi avevano accolto con “atteggiamenti ostili e violenti” gli ospiti. L’atmosfera si era infiammata al punto tale che, vista la promessa di rendere pan per focaccia da parte dei viareggini nella gara di ritorno prevista il mese successivo, le autorità invitarono i tifosi della Lucchese a rimanere a casa. Così si arrivò al 2 maggio, quando il Viareggio ospitò i rivali con la ferma intenzione di vincere per la prima volta un derby e vendicare i propri tifosi offesi in trasferta nel mese precedente. L’aria già elettrica fu alimentata dalla scelta dell’arbitro, residente a Lucca, che quasi per compensazione era affiancato da un guardalinee di Viareggio, un eroe di guerra ed ex tenente dei bersaglieri di nome Augusto Morganti.
Il Viareggio partì deciso e si portò avanti per 2 a 0, esaltando i tifosi locali che già pregustavano la vittoria mentre, come prevedibile, ben pochi erano i coraggiosi lucchesi che avevano sfidato il buon senso ed erano giunti in città a sostenere i propri beniamini. Nel finale di gara però, complice un arbitraggio che la stampa sportiva definì “non completamente imparziale” la Lucchese prima dimezzò le distanze e poi pareggiò, scatenando com’era immaginabile il furioso malcontento dei tifosi locali. Quando scoppiò una lite tra un giocatore ospite ed il guardalinee, l’arbitro pensò bene di fischiare la fine in anticipo, trovandosi contro proprio il Morganti, che invece intendeva far continuare la gara. Troppo tardi, la situazione era già degenerata. I giocatori delle due squadre diedero inizio ad una rissa dove intendevano saldare vecchi conti in sospeso, ed il pubblico inferocito invase il terreno di gioco. Fu il caos. I carabinieri presenti furono bravi a salvare i giocatori lucchesi e l’arbitro spingendo i viareggini fuori dallo stadio, sulla strada; ma quando i rinforzi provenienti dalla vicina caserma giunsero sul posto, fu chiaro che i tifosi del Viareggio si erano tutt’altro che rassegnati a perdonare quanto successo e si preparavano a rientrare nello stadio con la forza. I carabinieri tentarono di fare il possibile, mentre i lucchesi all’interno venivano fatti uscire da una porta secondaria ed erano costretti a camminare per 20 km fino alla stazione successiva. In quegli attimi concitati fuori dallo stadio, ben quattro carabinieri vennero disarmati, ma quando la situazione sembrava essersi finalmente calmata si udì uno sparo. In un silenzio surreale, fu a tutti evidente che un colpo di pistola era partito, e un uomo era morto: era proprio Augusto Morganti, che era stato colpito al collo da una pallottola esplosa dal carabiniere Nicola De Carli, con il quale aveva avuto un diverbio.
La calma si trasformò nuovamente in caos. I carabinieri furono linciati dalla folla inferocita e costretti a riparare all’interno della caserma, mentre i tifosi del Viareggio, resi ancor più esasperati dalla tragedia occorsa al Morganti, corsero a prendere le armi di cui disponevano. Si dice che almeno un centinaio di fucili e diverse rivoltelle comparvero nelle mani dei tifosi, che intendevano vendicare il proprio eroe cittadino e prendere il responsabile dell’omicidio. Rapidamente furono tagliate le linee elettriche e telefoniche, furono alzate barricate: l’omicidio di Morganti, che i presenti sostenevano essere assolutamente gratuito e frutto di antichi rancori personali, era solo l’ultimo di una serie di soprusi che i viareggini avevano subito negli anni e che non erano più disposti a tollerare. Erano, del resto, anni delicati per la politica italiana. Il fascismo aveva già preso forma, approfittando della disperazione e del vuoto di ideali derivati dalla Grande Guerra che si era conclusa appena due anni prima, e nel giro di un biennio sarebbero arrivate la Marcia su Roma e la nomina di Mussolini come capo assoluto del paese. Il 2 maggio 1920 si conclude a Viareggio con la caserma dei carabinieri locali circondata da una folla inferocita che minaccia persino di appiccarvi il fuoco.
All’alba del 3 maggio, la situazione si è tutt’altro che calmata. Nella mattinata l’autocarro dove viaggiano il maresciallo dei carabinieri e dieci uomini viene assalito, i militari finiscono disarmati e percossi. Altri due autocarri con una cinquantina di carabinieri, inviati dalle città vicine, vengono fatti oggetto di colpi d’arma da fuoco dalle finestre cittadine e infine presi con la forza e messi fuori uso. I militari presi prigionieri vengono portati nella Camera del Lavoro cittadina, mentre viene istituito un governo provvisorio che dispone barricate più numerose nei punti cardine della città e pattuglie armate che controllano chi si avvicina, operazione resa più facile anche dall’arrivo degli anarchici delle città circostanti, solidali con i “colleghi” di Viareggio. Quando la sera del 3 maggio anche il Comandante della Divisione di Livorno, il generale Castellazzi, viene fatto prigioniero insieme al suo seguito dopo essere giunto in città nel tentativo di ristabilire un ordine, la situazione è chiara a tutti: Viareggio si considera ormai a tutti gli effetti un regno a parte rispetto all’Italia. Il fuoco della protesta divampato in città sembra inestinguibile.
Invece, il 4 maggio, la rivolta si spegne rapidamente come si è creata. L’avvocato Luigi Salvatori, stimato dai viareggini in quanto più alto esponente del Partito Socialista cittadino, si rivolge ai propri concittadini dal balcone del Municipio, invitando la popolazione di Viareggio a valutare le conseguenze di un così eclatante e aperto atto di sfida all’autorità nazionale. Non è un segreto infatti che il Governo stia approntando contingenti militari fuori dalla città più numerosi e soprattutto più determinati nel sedare la rivolta. Continuare a sfidare lo Stato – sostiene il Salvatori – significa in pratica condannare la città a lutti e distruzione, dato che mai il piccolo comune toscano potrà sfidare apertamente un esercito. Inoltre il sostegno delle città vicine, giunto formalmente, non si è tramutato in fatti concreti. Così, dopo che si svolgono i funerali di Morganti, che in quel momento diventa una vera e propria icona della città, la Camera del Lavoro decreta la fine dello sciopero a oltranza e invita i cittadini a tornare alla calma, cosa che viene accettata salvo qualche sparuto gruppo di anarchici irriducibili.
La mattina del 5 maggio quindi l’esercito entra in città senza trovare opposizione da parte degli abitanti. Il generale Marincola vara numerosi decreti, come il fermo della circolazione e lo stop a cortei e comizi.
Nei giorni successivi le forze dell’ordine furono impegnate nella ricerca delle numerose armi che i “rivoltosi” avevano tolto ai militari, perquisendo le abitazioni degli “individui più temibili”, scandagliando i fondali del canale e delle darsene, ma nonostante questa operazione minuziosa e in larga scala, dei quasi 100 fucili ne furono recuperati solo 23. Inoltre, tra l’8 e il 12 maggio furono denunciati ed arrestati, con gravi imputazioni (tentato omicidio, resistenza e violenza, formazione di banda armata) quelli che furono ritenuti i “maggiori responsabili” della sommossa: Raffaello Fruzza, Alfredo Santarlasci, Cesare Corrieri, Guido Patalani, Maria Anna Genovali, Rosa Bertelli detta “Beghera”, Guerrino Fancelli, Uliano Albiani, Lelio Antinori, Gaspare e Pertinace Summonti, Alessandro Bandoni, Alfeo Pelliccia, Gino Gerard, Giuseppe Di Ciolo, Giulio Simonini, Margherita Pivot, Michele Orlando e Romeo Biagini.
Nel corso dei vari gradi di giudizio le responsabilità penali dei vari imputati – quasi tutti semplici popolani che non ricoprivano ruoli importanti all’interno di nessuna organizzazione politica o sindacale – furono notevolmente ridimensionate.
Dopo i provvedimenti emessi dal Tribunale di Lucca il 25 novembre 1920 e dopo le decisioni della Corte di Appello del marzo 1921, gli imputati furono tutti assolti ad eccezione di Bandoni, Pelliccia, Gerard e Biagini, che furono condannati per reati minori a pene comprese fra 3 e 8 mesi, anche questi rimessi in libertà in quanto avevano già scontato la pena in carcere in attesa di giudizio.
Si concludono le “giornate rosse” di Viareggio, che torna a tutti gli effetti una città facente parte del Regno d’Italia. Il calcio è stato il pretesto ma non la causa scatenante di una rivolta partita dal malcontento cittadino nei confronti delle forze dell’ordine locali. Quello che è destinato a diventare lo sport più popolare del Paese tornerà ad incrociare la città toscana nel 1926 con la famosa “Carta di Viareggio” (che riforma il calcio italiano ad ogni livello) e con la nascita nel 1949 del famoso torneo giovanile che si svolge tutt’ora. Ciò che rimane di quei giorni è l’ultimo motto d’orgoglio di un popolo che non intende arrendersi al fascismo che qualche anno dopo dominerà il Paese con tutta la sua retorica e le sue false promesse. E calcisticamente? Dopo un anno senza incidenti, la rivalità tra Viareggio e Lucca riesplode in ambito sportivo nella stagione 1921-22. I giocatori viareggini riescono finalmente a conquistare in casa la prima vittoria in un “derby”, ma i lucchesi sostengono che ciò avviene per via dell’atmosfera pesantemente intimidatoria trovata in città. Il clima teso rischia di dare il via ad un nuovo delirio di violenza nella gara di ritorno. I lucchesi vincono la gara, ma al termine di questa i viareggini danno sfogo a tutta la loro rabbia distruggendo buona parte della città sotto lo sguardo preoccupato delle forze dell’ordine, che non intervengono per paura di esasperare ancora una volta gli animi.
L’episodio delle “giornate rosse”, pur non essendo legato unicamente al calcio, è il primo episodio di vera violenza tra tifoserie, un fenomeno che purtroppo capita ancora e che trova radici oggi come ieri nel malcontento dell’uomo verso situazioni che poco hanno a che vedere con lo sport ed il football ma che in questi trovano terreno fertile ed una scusa per esplodere.
Fonti:
“Calcio. 1898-2010: storia dello sport che ha fatto l’Italia” (J. Foot, ed. BUR)
Sito ufficiale Comune di Viareggio
Territori del ‘900
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