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Calcio

I PROTAGONISTI DEL MONDIALE (10^ puntata): Germania Ovest 1974

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Prosegue la “Storia breve dei Mondiali”: siamo all’edizione del 1974, che si svolge in Germania Ovest e che vede il trionfo della tenacia dei padroni di casa sul ‘Calcio Totale’ dell’Olanda di Johan Cruijff, che comunque cambierà il calcio nei decenni seguenti.

Le precedenti puntate:

– URUGUAY 1930
– ITALIA 1934
– FRANCIA 1938
– BRASILE 1950
– SVIZZERA 1954 
– SVEZIA 1958 
– CILE 1962

– INGHILTERRA 1966

– MESSICO 1970


#IL MONDIALE
Cambia il trofeo in palio: la Coppa Rimet è andata definitivamente al Brasile, che l’ha conquistata per tre volte. Serve un nuovo trofeo, la FIFA incarica della realizzazione lo scultore italiano Silvio Cazzaniga. Il risultato finale è una coppa altra 36 cm e pesante quasi 5 kg in oro 18 carati.
Assenze clamorose in questo torneo sono quelle dell’Inghilterra e dell’URSS: ai primi è fatale lo scontro con la rivelazione Polonia nelle qualificazioni, ai sovietici il rifiuto di giocare lo spareggio con il Cile per protesta contro il sanguinario golpe operato da Pinochet ai danni di Salvador Allende e dietro al quale ci sono gli Stati Uniti (“Operazione Condor”) con cui l’Unione Sovietica è ai ferri corti. Per la prima e unica volta nella sua storia, partecipa anche la Germania Est, espressione di un calcio locale dove corruzione e violenza sono all’ordine del giorno. Tuttavia i tedeschi orientali si dimostreranno un buon complesso, sconfiggendo i cugini dell’Ovest nel girone eliminatorio e fermandosi solo nel secondo turno.
E’ infatti cambiata anche la formula del torneo: le 16 partecipanti vengono divise in 4 gironi di 4, passano le prime due classificate. Restano dunque 8 squadre, che vengono ancora divise in due gironi: chi vince i gironi va in finale. I campioni in carica del Brasile si rivelano deludenti, privi di Pelé ma anche di altri campioni di Mexico ’70; delude anche l’Italia vice-campione quattro anni prima, beffata dalla troppa sicurezza di se e da un gruppo decisamente non unito. La vera novità del torneo (e che condizionerà il calcio del futuro) è l’Olanda di Rinus Michels: il tecnico ha fuso le due squadre più dominanti in Europa all’epoca (Ajax e Feyenord) in una miscela esplosiva che mette in mostra per la prima volta il cosidetto “Calcio Totale”. Si tratta di un rivoluzionario modo di giocare, dove tutti i calciatori coprono a turno tutti i ruoli scambiandosi rapidamente e frequentemente di posizione, il tutto condito da pressing furioso e ritmi altissimi. In attacco non il classico centravanti ma un giocatore completo, che arretra e va ad impostare, uno dei migliori giocatori della storia del calcio: Johan Cruijff.
Gli “orange” arrivano fino alla finale, dove però devono arrendersi alla concretezza e alla forza fisica e mentale della Germania Ovest padrona di casa, che rimontano lo svantaggio iniziale e conquistano così il loro secondo Mondiale.


Un successo meritato per una squadra fortissima ed in costante crescita e che ha trovato nel suo libero Franz Beckenbauer il leader ideale ed ha in Gerd Muller, formidabile macchina da reti, l’apriscatole ideale per perforare qualsiasi difesa.

#GLI EROI
La Germania Ovest ha una difesa fortissima, composta dal portiere Maier e da Vogts, il tenace Schwarzenbeck, l’elegante Beckenbauer ed il fluidificante con il vizio del gol Breitner, chiamato “il Maoista” per via della fede politica. In attacco a segnare ci pensa il solito Gerd Muller, mentre a inventare il compito spetta a Wolfgang Overath, talento del Colonia gradito a Beckenbauer a differenza del carismatico Gunter Netzer, stella del Real Madrid con cui “Kaiser Franz” si è scontrato più volte.


Nell’Olanda si distinguono il portiere dilettante (è un tabaccaio!) Jongbloed, discreto tra i pali ma molto bravo ad impostare con i piedi e che gioca senza guanti “per meglio prendere il pallone”. In difesa spiccano i due terzini Suurbier e soprattutto Krol, autentiche ali aggiunte, a centrocampo si distinguono il “centrocampista totale” Neeskens ed il ficcante Rep, in attacco il versatile Rensenbrink fa da spalla a Cruijff, libero di agire nella zona di campo che più gli aggrada. Chiamato “il Pelé bianco”, Cruijff passa alla storia per la sua completezza tecnica ma soprattutto per la sua grandissima capacità di rallentare o accelerare in un attimo i tempi di gioco.


Il terzo posto va alla sorprendente Polonia di Grzegorz Lato, capocannoniere del torneo: calciatore tecnicamente superbo, anche grazie al blocco comunista degli espatri lega quasi tutta la carriera alla misconosciuta squadra locale dello Stal Mielec, che porta a vincere due scudetti.
Alle sue spalle il regista è Kazimierz Deyna, splendido interprete del ruolo nel Legia Varsavia e che sarà tra i primi “pionieri” del calcio in USA: è in America che troverà la morte, poco più che quarantenne, in un incidente stradale a San Diego.
Il Brasile non è per niente brillante, va avanti dove può ma si ferma quando il gioco si fa duro: persi Pelé, Tostao e Gerson, rimangono Rivelino e Jairzinho, che però non bastano appunto a mantenere il titolo. Nell’Italia che va fuori al primo turno si vedono i reduci del ’70 Riva, Rivera, Facchetti, Burgnich e Mazzola, uniti ai giocatori della Lazio-rivelazione Chinaglia, Wilson e Re Cecconi (che morirà ancora giovane tre anni dopo per un assurdo scherzo finito in tragedia) e al futuro monumento azzurro Dino Zoff. Purtroppo il mix non riesce a Valcareggi, che lascia dopo 8 anni e due Mondiali in seguito al deludente risultato. Altre stelle sparse? La Germania Est vanta il portiere Jurgen Croy, tre volte calciatore orientale dell’anno, e la punta Jurgen Sparwasser, che realizza lo storico gol con cui gli orientali battono i “cugini” occidentali nel girone eliminatorio.


Nel Cile scosso dalla presa di potere di Pinochet spicca la punta Carlos Caszely, “il Re del metro quadro”, fiero oppositore del regime; alla Scozia non basta un tridente da sogno composto da Dalglish, Lorimer e Joe Jordan (in futuro meteora al Milan) supportato dal corridore Bremner per lasciare il segno, mentre nella umorale Jugoslavia spicca il talento sopraffino di Dragan Dzajic, per molti il miglior calciatore serbo di sempre.

#L’EPISODIO
Mancano pochi minuti alla fine dell’ultima gara del Gruppo B, primo turno del Mondiale: il Brasile sta vincendo per 3 a 0 contro lo Zaire, e l’arbitro rumeno Rainea ha fischiato una punizione per i verde-oro a pochi metri dall’area di rigore africana. Lo specialista Rivelino sta ancora decidendo come calciare quando dalla barriera dello Zaire un calciatore, Ilunga Mwepu, si stacca per correre incontro al pallone fermo e calciarlo via lontano con rabbia.

 
I brasiliani, l’arbitro (che non può esimersi dall’ammonire lo zairese) e tutti gli spettatori presenti allo stadio o a casa rimangono increduli, mentre Mwepu continua a inveire contro Rivelino. L’episodio appare quasi comico, i poveri africani che ancora non riescono a capire le più basilari regole del calcio, ma dietro al gesto del difensore tesserato per il Mazembe vi è in realtà una motivazione drammatica.
Ai tempi, infatti, dittatore assoluto dello Zaire era Joseph-Desiré Mobutu. Egli aveva preso il potere grazie ad un colpo di stato che aveva portato alla morte di Patrice Lumumba, primo presidente del paese democraticamente eletto. Non aveva fatto tutto da solo, ma era stato sostenuto dai governi del Belgio e degli Stati Uniti in un operazione analoga all’Operazione Condor in Sudamerica: un modo per combattere il temuto dilagare del comunismo nel mondo.
Mobutu era un dittatore spietato, l’archetipo del dittatore africano: sfruttò lo Zaire per arricchirsi in modo vergognoso, durante il suo governo la repressione, la corruzione ed il nepotismo furono all’ordine del giorno.
Come molti dittatori prima di lui, vide nel calcio un forte veicolo di propaganda, e fu così che riportò in patria i migliori calciatori locali convogliandoli nel TP-Englebert, oggi noto come Mazembe.
L’idea? Semplice: i calciatori avrebbero potuto giocare insieme ed insieme allenarsi per creare una grande Nazionale.


Il piano funzionò, i calciatori riuniti presero a giocare molto bene e conquistarono, qualche mese prima dei Mondiali, la Coppa d’Africa. Le aspettative per il torneo mondiale erano alte, e Mobutu promise mari e monti ai suoi uomini in caso di bella figura: lo Zaire fu inserito in un girone di ferro comprendente i campioni del mondo in carica del Brasile, la Scozia e la talentuosa seppur incostante Jugoslavia. Proprio contro gli scozzesi gli africani disputarono la prima gara del Mondiale, e lì si accorsero di quanto fossero tremendamente indietro rispetto al calcio europeo e sudamericano: i britannici li sovrastavano in centimetri ed elevazione, la gara fu a senso unico e sorprendentemente si concluse solo sul 2 a 0 per i rivali, che sprecarono una quantità enorme di palle-gol. Non era un risultato di cui vergognarsi però. Quello sarebbe arrivato nella seconda gara, giocata contro la Jugoslava, squadra capace di tutto e del suo contrario ma quel giorno tremendamente ispirata: dopo mezz’ora il punteggio era già di 5 a 0 per gli slavi, che conclusero con un mortificante 9 a 0 solo perché dalla mezz’ora in poi parvero darsi all’accademia.


Era un umiliazione troppo grande per Mobutu, che raggiunse la Germania insieme alla sua guardia scelta e fece un chiaro discorso ai suoi uomini: nell’ultima gara esigeva di non fare brutte figure. Peccato che l’ultima gara fosse proprio contro il Brasile tre volte Campione del Mondo nonché campione in carica e al quale serviva una vittoria per 3 a 0 per qualificarsi ai danni proprio degli scozzesi.
“Bene – disse Mobutu – il limite sono i 3 gol che servono al Brasile. Non sono un folle (?), so che differenza c’è tra noi e loro. Ma attenti: 3 reti, non una di più. Se non ce la farete, nessuno di voi tornerà a casa. E ricordatevi che a casa ci sono anche le vostre famiglie.”
E’ comprensibile lo stato d’animo con cui gli zairesi affrontarono la gara: passato in vantaggio appena al 12° minuto grazie a Jairzinho, il Brasile controllò la gara ma non riuscì a sfondare contro gli africani che – adesso è noto – giocavano per le loro stesse vite. A poco meno di mezz’ora dalla fine Rivelino siglò il 2 a 0, e a 10′ dalla fine arrivò il 3 a 0 della qualificazione ad opera di Valdomiro. Nei minuti che restavano il nervosismo si poteva tagliare a fette: Mobutu, del resto, era uomo di parola quando si parlava di minacce.
Ed ecco la punizione per il Brasile, la corsa folle e disperata di Mwepu, ecco spiegato il perché di una scena che per molti ancora oggi appare comica ma che fu, in realtà, realmente drammatica.

#IL PROTAGONISTA
Un appassionato di calcio può chiedersi del perché Franz Beckenbauer fosse soprannominato “Kaiser” (“Imperatore”, non letteralmente) soltanto se non lo ha mai visto giocare. Solo che se non lo ha mai visto giocare non può definirsi un vero appassionato di calcio. Perché Beckenbauer è stato un giocatore unico nel suo genere, di quelli che ne nasce uno ogni mezzo secolo. Forse.
Nella patria dei grandi capitani, dei grandi giocatori a tutto campo, “Kaiser” Franz è stato il più grande di tutti: fiero ed elegante nell’incedere palla al piede, a testa alta, sicuro e tenace nella fase difensiva quanto letale e completo in quella d’attacco. Dotato di un intelligenza tattica mostruosa, che gli ha permesso di annullare alcuni tra i più grandi campioni della storia, non a caso messa a frutto quando dal campo è passato alla panchina. Un leader nato, un vincente per natura.


Il simbolo per eccellenza del calcio tedesco nasce a Monaco di Baviera e giovanissimo entra nelle giovanili del Bayern Monaco, con cui esordisce giovanissimo mostrandosi da subito un predestinato: l’esordio in Nazionale è datato 1965, ventenne. L’anno successivo è già tra i titolari della Germania Ovest che arriva in finale ai Mondiali del 1966, sconfitta soltanto dall’Inghilterra e da un guardalinee sovietico: è un Mondiale da protagonista, giocato da mediano davanti alla difesa. Implacabile nella marcatura, in finale annulla Bobby Charlton, miglior calciatore inglese, ma non basta, così come non bastano le 4 reti messe a segno durante il torneo grazie a perentorie sortite offensive. Già allora, ventunenne, viene da tutti chiamato il “Kaiser”, già allora si intravedono le stimmate del campione, del predestinato.
In patria i successi arrivano, una Coppa delle Coppe, tre Coppe di Germania e un Titolo Nazionale, quindi arrivano i Mondiali del 1970: anche qui Beckenbauer è protagonista, trascina i suoi ancora quasi fino in fondo. Fino alla semifinale, Italia-Germania, “la partita del secolo” che vede gli azzurri trionfare per 4 a 3 e che “il Kaiser” gioca nei supplementari con il braccio destro fasciato lungo il corpo a seguito di una spalla lussata: forse uno dei motivi per cui gli azzurri trionfano, sicuramente un simbolo della stoicità e dell’altruismo (le sostituzioni erano finite, i compagni sarebbero rimasti in 10) di Beckenbauer.


Così, a livello di club i titoli continuano ad arrivare (tra il 1974 ed il 1976 il “suo” Bayern conquista 3 Coppe Campioni consecutive) mentre in Nazionale arriva finalmente un successo, la vittoria degli Europei di Belgio, anno 1972. Due anni dopo si gioca il Mondiale, in casa proprio della Germania Ovest: “Kaiser” Franz sa che è un occasione da non perdere, sa che quello sarà il suo Mondiale, quello dove lascerà il segno. E così accade: giocando da libero, reinventa il ruolo portandolo ad avere una connotazione offensiva, di costruzione. Difende, intercetta, crea, conclude: in pratica Beckenbauer E’ la Germania Ovest, il contraltare difensivo di quello che è Cruijff, in attacco, per l’Olanda. Naturale che in finale si scontrino proprio tedeschi e olandesi, naturale che la sfida sia tra Beckenbauer e Cruiff, uguali nella professione di leader calcistici eppure con metodi e tecniche così diverse.


Pronti-via e le qualità da leader di Franz vanno subito testate: l’Olanda batte da centrocampo e i tedeschi non riescono a toccare il pallone per un paio di minuti. Vogts tocca una gamba di Cruijff in area però: rigore. Neeskens realizza senza problemi.
Chiunque cadrebbe in depressione: chiunque ma non Beckenbauer. La partita è appena cominciata, i tedeschi sono da sempre un diesel, vengono fuori alla distanza. Ed è così: prima Breitner su rigore trova il pareggio, poi l’immarcabile Gerd Muller gira in rete un suggerimento di Bonhoff. L’Olanda potrebbe ancora rimontare, ma in difesa c’è Beckenbauer, non uno qualunque. E infatti finisce 2 a 1, la Germania Ovest è Campione, e colui che alza al cielo la nuova Coppa – che ha sostituito la Rimet usata fino al 1970 – è proprio lui, Franz Beckenbauer.
Terminata la carriera come una delle tante stelle del “cimitero degli elefanti” americano, torna in Germania 37enne per giocare con l’Amburgo, con cui vince il titolo nella sorpresa generale. Poi si ritira, forte del seguente palmares: 2 Palloni d’Oro, una Coppa del Mondo, un Europeo, 3 Coppe Campioni, una Coppa Coppe, una Coppa Intercontinentale, 5 Campionati Tedeschi, 4 Coppe di Germania, 3 Campionati Americani.
E poi? Cosa può esserci dopo il calcio per uno come Beckenbauer? Ancora calcio, solo calcio: nel 1990 è il CT che guida la Germania alla conquista del Mondiale di Italia ’90, con il Bayern Monaco vince un campionato ed una Coppa di Germania, quindi diventa dirigente proprio dei bavaresi.
Che, sarà un caso, sono oggi la squadra più forte al mondo. Del resto uno come Beckenbauer poteva essere tipo da accontentarsi di partecipare? 

Fonti: Wikipedia, “Storia dei Mondiali di Calcio” (Bocchio-Tosco) 

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