Basket
Carlo Negroni, campione virtussino di lungo corso, raccontato da Ezio Liporesi
Ai più giovani il nome Negroni non dirà nulla, ma ogni virtussino dovrebbe dire grazie a questa famiglia, legata a … triplo filo con la storia della V nera. Mario Negroni era Segretario Generale della Virtus quando i ragazzi dell’atletica andarono nel suo ufficio (addossato alla prima colonna della navata centrale, occupava lo spazio di un’ex cappella e negli scaffali erano allineati, gli scatoloni con sopra le date, a partire dal 1871, anno di fondazione), a chiedere un campo per cimentarsi con la palla al cesto, come si chiamava allora; fu poi presidente della sezione pallacanestro dopo la seconda guerra mondiale, nel 1946 e 1947; poi riprese il suo ruolo di Segretario Generale e si adoperò anche per trovare un nuovo campo che sostituisse la Santa Lucia non più disponibile, così nacque il mito della Sala Borsa. Suo figlio Cesare, classe 1920, aveva già cominciato prima della guerra, poi nel 1947 e 1948 vinse due scudetti; lasciato il campo continuò a seguire la sua Virtus: abitava a Rimini, lavorava alla Sacramora, ma puntualmente compariva in Piazza Azzarita quando giocava la sua Virtus e spesso seguiva la squadra anche in trasferta (ricordo personalmente la sua eccitazione prima di partire per Cantù per la bella di semifinale in programma il lunedì di pasqua 1977). Morì “sul campo”, un infarto lo portò via subito dopo la conclusione di un Virtus Cantù il 26 novembre 1980. Carlo Negroni nacque cinque anni dopo Cesare, ma lo superò per talento e titoli, ha infatti vinto cinque scudetti (1947, 1948, 1949, 1955 e 1956), è stato capitano delle V nere, ha giocato in Nazionale, dove esordì il 9 gennaio 1948 a Parigi segnando allo scadere del supplementare il libero della vittoria per 36 a 35, non un caso perché è sempre stato un giocatore che dimostrava particolare freddezza nei momenti decisivi. Insomma diventare giocatori in casa Negroni era un fatto naturale, visto il ruolo che aveva il padre Mario Negroni nella Virtus. Quest’ultimo era la Virtus prima della palla al cesto, ne ha aiutato gli inizi ed è stato il presidente ai tempi dei primi successi, Cesare ha giocato in Santa Lucia e in Sala Borsa, Carlo in Sala Borsa e al Palasport, ma il padre e i due figli si trovarono anche contemporaneamente a vincere scudetti. Carlo Negroni oggi ha 94 anni, nessun giocatore della Virtus vivente può vantare una simile longevità; tutti lo hanno sempre chiamato Carlito, perché un nome un po’ esotico faceva più effetto sulle ragazze e questo era un motivo più che buono per costruirsi un soprannome. Ho parlato con Carlito il primo novembre, mi ha raccontato i suoi ricordi, con particolari inediti rispetto a precedenti interviste, ma soprattutto con una lucidità e un entusiasmo da ragazzino.
“Cesare ed io volevamo giocare bene, anche per permettere di fare bella figura a nostro padre, per il quale la Virtus era una ragione di vita; mia madre diceva sempre, se avessimo i soldi che papà spende per la Virtus saremmo milionari. Noi giocatori non eravamo pagati, ma con la Virtus e la Nazionale avevo la possibilità di viaggiare spesato, Casablanca, la Francia, la Spagna, erano mete che non avrei potuto raggiungere senza l’aiuto della pallacanestro. In realtà un costo questi viaggi l’avevano, perché dovevo chiedere permessi al datore di lavoro: io ero infatti impiegato all’Acoser e ho effettuato la posa di gran parte delle tubature di Bologna. Quando dopo la guerra ci fu la necessità di trovare un campo che sostituisse la non più disponibile Santa Lucia, fui io durante un ballo in Sala Borsa ad avere l’idea che avremmo potuto giocare lì. Mio padre che era anche Presidente della Provincia si attivò e quello divenne il campo di tanti successi: lì vinsi cinque campionati dal secondo in assoluto delle V nere, nel 1946, al sesto, quello del 1956. La Sala Borsa, quando giocavamo, diventava una bolgia e il disegno di quel pavimento faceva perdere l’orientamento agli avversari. Naturalmente non c’erano spogliatoi, ci cambiavamo nelle cantine, c’era solo un lavandino e, dopo le partite ci si poteva giusto dare una lavata di mani e di faccia; all’uscita quando andavo incontro alla ragazza che era venuta a vedermi, avvertivo l’imbarazzo del sudore ancora appiccicato addosso. Dopo venne il palasport, uno spazio che sembrava immenso, ma soprattutto il lusso di spogliatoi con doccia calda. Ormai, però, per me erano gli ultimi anni, il gioco stava passando in mano ai giganti, alla Virtus era arrivato da qualche anno Calebotta ed io, che basavo il mio gioco sulla velocità, sul contropiede, ma ero anche un ottimo rimbalzista, trovavo sempre più difficoltà. Oggi sono vecchio – conclude Carlito – ma ho ricordi bellissimi del mio lavoro e della pallacanestro, degli amici, della Virtus…con un unico rimpianto: non avere più una donna al mio fianco”.
Oggi pochissimi possono dire di aver visto giocare Carlito Negroni, ma idealmente ci alziamo in piedi davanti a un giocatore della Virtus che ha vinto 5 scudetti (come lui solo Gigi Rapini e Gus Binelli), uno dei grandissimi, uno che ha sempre cercato di portare in alto la Virtus, anche nelle occasioni in cui nulla era in palio. Un esempio: il 26 giugno 1949 le V nere si recano a Porretta Terme per festeggiare il quarto scudetto. La gara contro i locali non ha storia, 58-20, ma Carlo si distingue ed è, con Paride Setti, il migliore in campo.
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