Calcio
I Protagonisti del Mondiale (7^ puntata) – CILE 1962
Prosegue la “Storia breve dei Mondiali”: quest’oggi l’edizione del 1962, una delle edizioni più controverse dal punto di vista arbitrale.
Le precedenti puntate:
– URUGUAY 1930
– ITALIA 1934
– FRANCIA 1938
– BRASILE 1950
– SVIZZERA 1954
– SVEZIA 1958
#IL MONDIALE
Dopo 12 anni il Mondiale torna in Sudamerica, venendo assegnato a sorpresa al Cile e non all’Argentina che da tempo ambisce ad organizzarlo. In molti in Europa si domandano come possano i cileni organizzare un torneo importante e costoso come la Coppa Rimet, a maggior ragione dopo lo spaventoso “Terremoto di Valdivia” che, nel 1960, causa la morte di oltre 3000 civili.
Il torneo si svolgerà invece regolarmente, anche se su molte partite inciderà un arbitraggio non all’altezza, soprattutto a favore dei padroni di casa che raggiungono alla fine uno storico terzo posto. Manca la Svezia finalista 4 anni prima, deludenti sono le prove di Uruguay e Italia (fuori ai gironi) così come di Germania Ovest, URSS e Inghilterra, eliminate ai quarti di finale.
Il titolo va ancora al Brasile, che vince nonostante l’assenza per praticamente tutto il torneo della sua stella più fulgida, Pelé, infortunato alla seconda gara: lo sostituisce Amarildo, che gioca bene, ma la squadra se la carica sulle spalle il fenomenale Garrincha, che gioca meglio di quanto si sia mai visto e trascina i compagni al trionfo superando in finale la tosta ma sterile Cecoslovacchia.
#GLI EROI
Il Brasile presenta una squadra parzialmente rinnovata rispetto a quella del 1958, ma i protagonisti sono sempre gli stessi: i terzini Nilton e Djalma Santos, il difensore Bellini, gli attaccanti Didi, Vavà, Garrincha: la novità è rappresentata da Amarildo, punta del Botafogo e successivamente di Milan, Fiorentina e Roma. Venuto in Cile come riserva di Pelé, quando questi si infortuna durante la seconda gara gli subentra e non lo fa rimpiangere.
La Cecoslovacchia arriva in finale grazie ad un complesso ordinato e molto chiuso, abile nel gioco fisico e capace di realizzare rapidi e letali contropiedi: non una squadra indimenticabile, dunque, pur se con buonissime individualità in porta (Schrojf, che però deluderà in finale) e sulla trequarti il fenomenale Josef Masopust. Per le sue ottime prestazioni questi vincerà, quell’anno, il Pallone d’Oro ed è a tutt’oggi considerato il miglior giocatore mai espresso dalla talentuosa scuola calcistica cecoslovacca.
Il Cile, come detto, è favorito da alcuni arbitraggi non proprio imparziali, ma vanta comunque un duo d’attacco di indubbio talento: Leonel Sanchez e Jorge Toro, con quest’ultimo che sarà protagonista del calcio italiano per un decennio. L’URSS vanta talenti come il portiere Yashin, i centrocampisti Voronin, Netto, Chislenko e la punta Valentin Ivanov, 4 reti in 4 gare.
La Jugoslavia che arriva quarta ha un tridente d’attacco notevole: “L’Aquila della Dalmazia” Josip Skoblar, il potente Drazan Jerkovic (4 reti) e il veloce e aggressivo bosniaco Mujic: quest’ ultimo verrà allontanato dalla squadra dopo il tremendo fallo ai danni del sovietico Dubinski, che per l’entità dell’infortunio riportato addirittura morirà qualche anno più tardi.
Altre stelle sono gli italiani Bulgarelli, Cesare Maldini, Rivera e Pascutti affiancati anche dagli “oriundi” Maschio, Sivori e Altafini: gli azzurri andranno fuori subito in una partita molto controversa. Nella Germania Ovest che delude ancora spiccano i nomi di Schnellinger, Haller e Seeler, nell’Ungheria si rivede un campione degno dei tempi d’oro: è Florian Albert, futuro Pallone d’Oro nel 1967 ma già in questi Mondiali ottimo giocatore, capace di segnare 4 reti in 4 partite e di imporsi all’attenzione del mondo. Deludente anche l’Inghilterra, appena il progetto della squadra fantastica che vedremo 4 anni dopo: non bastano Charlton, Moore, Greaves e Robson. Manca un CT con idee nuove, cosa che non è Walter Winterbottom.
Presenta tanti campioni la Spagna: a Francisco Gento, Santamaria, Luis Del Sol, Joaquim Peirò e Luis Suarez sono stati “accorpati” i naturalizzati Alfredo Di Stefano e Ferenc Puskas, due dei migliori giocatori della storia del calcio. Le Furie Rosse sono guidate da Helenio Herrera, pochi anni dopo capace di vincere tutto con l’Inter. Eppure gli spagnoli deludono, vincendo solo una gara contro il debole Messico (per giunta con il gol che arriva solo in pieno recupero) e tornando a casa senza aver superato i gironi. Un autentica delusione figlia di numerosi fattori, come l’infortunio occorso a Di Stefano e soprattutto delle frizioni presenti tra squadra e CT e tra i vari compagni.
#L’EPISODIO
Controversa fu la decisione di assegnare l’organizzazione dei Mondiali del 1962 al Cile, paese che non viveva certo un boom economico e che si temeva si sarebbe rivelato carente nell’allestire una kermesse importante come il Campionato del Mondo di calcio: si disse che, dovendo per forza di cose tornare in Sudamerica, il Mondiale fosse andato al Cile per le pressioni del Brasile – che non voleva che questo andasse ai rivali dell’Argentina e non poteva d’altro canto averli per se avendoli organizzati già nel 1950.
Poco prima dell’inizio del torneo, due giornalisti italiani (Antonio Ghirelli del “Corriere della Sera” e Corrado Pizzinelli del “Resto del Carlino – La Nazione”) realizzarono un oscuro reportage sul Cile, definendolo come un paese dove droga, prostituzione e alcolismo regnavano e definendo gli stessi cileni un popolo di “regrediti”. Ciò, unito al fatto che l’Italia si avvaleva di due oriundi argentini (Maschio e Sivori) contribuì ad un clima di tensione via via sempre più crescente. Azzurri e padroni di casa erano inseriti nello stesso girone, insieme a Germania Ovest e Svizzera, e stante la qualificazione certa dei tedeschi i cileni capirono subito che il passaggio al secondo turno sarebbe stato deciso nella sfida con l’Italia, che andò in scena il 2 giugno a Santiago.
Il Cile aveva sconfitto agevolmente la Svizzera per 3 a 1 nella prima gara, mentre gli azzurri avevano pareggiato con la Germania Ovest: l’Italia necessitava quindi di una vittoria, o perlomeno di non perdere, mentre i cileni con un successo si sarebbero qualificati automaticamente.
La Commissione Tecnica Ferrari-Mazza operò ben sei cambi rispetto alla gara precedente, mentre il Cile confermò i suoi uomini stante anche una panchina non certo di gran livello. L’arbitro designato era l’inglese Ken Aston, da molti considerato uno dei migliori al mondo nel suo ruolo.
A poco servì il gesto distensivo dei giocatori italiani, che prima della gara lanciarono fiori al pubblico: una bordata di fischi li accolse, un intero stadio strapieno ed inferocito contro chiunque fosse vestito d’azzurro.
I cileni la misero subito sul piano fisico, consci dell’inferiorità tecnica globale rispetto agli avversari, e al 7° minuto erano già in vantaggio numerico: Ferrini reagì con violenza ad una brutta entrata di Landa, e Aston dovette espellerlo. Nella concitazione del momento, Leonel Sanchez sferrò un pugno in pieno volto all’azzurro Maschio, fratturandogli il setto nasale: Aston era di spalle e non vide niente, e l’italo-argentino dovette continuare la gara menomato, dato che ai tempi non erano previste le sostituzioni. Dopo circa dieci minuti, dunque, gli italiani giocavano già con un uomo e mezzo in meno, per dirla francamente, con Ferrini che fu portato fuori dal campo addirittura dai carabinieri.
La partita proseguì su questa falsariga, gli italiani capirono che invece di cercare di vincere era importante non perdere, in quelle condizioni. Il gioco divenne duro e frammentato, i carabinieri dovettero intervenire in un altro paio di occasioni mentre Aston non sapeva più come fare per mantenere la gara su canoni di normalità. Sul finire del primo tempo (38° minuto) Sanchez volò in terra in seguito ad un regolare contrasto in tackle di Mario David, che tuttavia si beccò un pugno in volto dal rivale incredibilmente non sanzionato da Aston, il quale pochi minuti dopo però vide benissimo il calcione “vendicativo” dell’italiano ai danni del cileno. Altra espulsione, sacrosanta pur se causata da un errore nell’azione precedente, e Italia in nove, con Maschio per giunta sempre più fuori dal gioco a causa del setto nasale fratturato.
Il secondo tempo fu un assedio cileno, un assedio che gli italiani riuscirono a respingere solo fino ad un quarto d’ora dal termine, quando la mezzapunta Jaime Ramirez riuscì ad infilare Mattrel. Pochi minuti dopo Jorge Toro fissò il punteggio sul 2 a 0. Al termine della gara vibranti furono le proteste in tutto il mondo per l’arbitraggio di Aston, parso come minimo intimorito dal pubblico e dalla situazione creatasi in campo e dimostratosi incapace di contenere il gioco duro e falloso dei cileni. Anni dopo lo stesso Aston – inventore peraltro dei cartellini gialli e rossi, forse proprio ispirato da questa gara – ammetterà di non aver arbitrato bene ma di essersi trovato in mezzo ad una battaglia più che in mezzo ad una partita di calcio. L’inglese dirà anche di aver pensato alla sospensione del match, ma di avervi poi rinunciato temendo una vera e propria sommossa popolare da parte del pubblico cileno, numeroso ed inferocito.
Nell’ultima gara del girone, il Cile viene sconfitto dalla Germania Ovest, l’Italia batte la Svizzera ma ormai è fuori: passano i cileni, che arriveranno fino ad un terzo posto mai più ripetuto.
#IL PROTAGONISTA
Quando, nel 1958, il Brasile stava allestendo una squadra capace finalmente di vincere la Coppa Rimet, il CT Vicente Feola mise nella sua lista circa duecento calciatori: questi vennero mano a mano scremati seguendo diversi parametri, come tecnica, carattere, adattabilità, fino a quando non furono scelti i 22 “eletti”: tra questi non doveva esserci Manoel Francisco dos Santos detto “Garrincha”. Certo, aveva una tecnica di prim’ordine, forse addirittura la migliore di tutto il Brasile. Il carattere era gioviale, il ruolo (ala classica) addirittura imprescindibile ai tempi. E allora?
Allora il medico del Brasile aveva riscontrato due difetti non da poco in quell’ala funambolica. Primo: mentalmente era ritardato. Non era chiaro se fosse un problema mentale oppure (più probabilmente) l’essere cresciuto in uno stato quasi selvaggio: il padre forte alcolista, la madre spesso malata, il tempo passato a nuotare nei fiumi e dare la caccia agli uccellini oltre che nel prendere a calci un pallone. Ad andar bene, Garrincha poteva essere definito un sempliciotto, portato inoltre già allora a bere e tabagista dall’età di 10 anni.
Secondo problema: il fisico. Che più sghembo non sarebbe mai stato rivisto su un campo di calcio. La gamba sinistra più lunga della destra, il ginocchio destro curvo verso l’interno, il sinistro verso l’interno, il bacino sbilanciato. Pure leggermente strabico! Un disastro. Come aveva fatto a diventare professionista un disgraziato del genere?
La risposta, al CT Feola, la diedero i compagni: “Mister, lo ha visto giocare?”
Garrincha è stato il più grande interprete, nella storia del calcio, del ruolo di ala. Il fisico sbilenco e improbabile, invece che rivelarsi uno svantaggio, lo rendeva semplicemente inarrestabile quando fuggiva sulla fascia. Inutilmente gli avversari raddoppiavano, triplicavano, la marcatura su di lui: non c’era niente da fare, lui puntava ogni rivale e lo saltava con una finta che solo le sue gambe storte e diseguali potevano disegnare, una finta che nessuno poteva neutralizzare e che lo portava inesorabile ad arrivare nei pressi della porta. Da lì era un gioco da ragazzi segnare oppure servire ad un compagno un pallone che andava solo accompagnato in rete. Per il suo carattere ingenuo e giocoso fu soprannominato “L’allegria del popolo”, per molti fu inferiore solo a Pelé, per qualcuno lo sopravanzò anche.
Fu grande protagonista anche ai Mondiali del ’58, ma fu in quelli di Cile nel ’62 che raggiunse la sua massima vetta di splendore: con Pelé fuori dalla seconda gara, prese il Brasile sulle sue fragili spalle e lo portò fino alla vittoria finale, segnando 4 reti e servendo assist come se piovesse. I gol furono equamente divisi (2 a gara) tra quarti di finale e semifinale, vittime i maestri dell’Inghilterra e i padroni di casa del Cile. Quel Mondiale fu, senza dubbio, vinto principalmente da lui, “Mané”, che aveva trovato nel calcio un riscatto che il suo fisico improbabile ed il suo basso quoziente intellettivo non avrebbe potuto trovare altrove e che lo avrebbe condannato ad una vita povera ed anonima.
Morì preso, nemmeno cinquantenne, piegato dall’alcol che gli causò una cirrosi letale. Ebbe quindici figli, morì comunque in povertà visto che non era capace di amministrare quanto guadagnava e sovente sperperava allegramente i soldi che i compagni tentavano di fargli mettere da parte.
“Mané Garrincha visse i suoi ultimi venti anni totalmente avulso dalla società. Affondò nell’alcolismo, restò incapace di rapportarsi con ognuno dei quattordici figli che lasciò sparsi per il mondo. Bistrattato dalle compagne, sveniva per le porte delle osterie, dormiva per i marciapiedi, era accolto da omosessuali e sopravviveva solamente grazie ai favori e alla filantropia del potere pubblico.”
(Telmo Zanini in Mané Garrincha)
Se ne andò nella miseria e nell’alcolismo, malato e pieno di debiti che di volta in volta venivano pagati da amici e fans. Morì la notte del 19 gennaio del 1983, in seguito ad un acuto attacco di cirrosi conseguenza di tre giorni passati a bere, ormai solo e disperato. Aveva 49 anni.
Le sue ossa riposano in un cimitero dimenticato da molti. Sull’epitaffio la scritta “Qui riposa in pace colui che fu La Gioia del Popolo, Mané Garrincha”, a ricordare quello che fu uno dei più fenomenali giocatori della storia del calcio, che nonostante la vita non gli avesse dato i mezzi per emergere riuscì a scrivere a caratteri cubitali il suo nome nella leggenda di questo sport.
Garrincha, il fragile uccellino che volava via imprendibile sulla fascia.
Fonti: “Storia dei Mondiali di Calcio” (Bocchio-Tosco, ed.Sestante)
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