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Sinisa Day – Guerriero Indomito

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Sinisa Mihajlovic non è l’unico al mondo che lotta contro la leucemia. Ma è uno della nostra tribù, della tribù del calcio. Ecco perché lo sentiamo più vicino e nello stesso tempo, proprio per questo, lo «usiamo» per vendere il coraggio, ammesso che siano  verbi corretti (usiamo, vendere: non credo). La popolarità che lo sport offre è una penna ambigua, può creare fate ma anche orchi. Nel caso specifico, ha fornito e sta fornendo un esempio.

Fin dal giorno in cui aprì gli occhi alle lacrime e il cuore alla dignità, dichiarando ufficialmente guerra allo «stato» che l’aveva aggredito, Sinisa è diventato uno di noi. Al di là della maglia, delle rivalità (ce ne sono state, tante; e alcune dure, molto dure), della religione che il tifoso professa e custodisce così gelosamente da cadere, spesso, nel grottesco.

In questo calcio «usa e detta» (dai padroni delle ferriere ai procuratori che ormai hanno trasformato le provvigioni in vitalizi); in questo calcio che ha scelto il Var, o la Var, come ultimo Piave «mobile» (se mi dà ragione, non passi lo straniero; se non me la dà, che passi pure); ecco, in questo bordello così strano perché così individualista, Bologna e Mihajlovic hanno scritto una piccola grande storia che aiuta tutti, i malati del corpo e noi malati dell’anima che chiediamo a un pallone di gonfiare le ambizioni, le speranze che la vita ci ha bucato: la vita, e talvolta – siamo sinceri – il nostro ego.

Sinisa è sempre stato serbo, mai servo. Ha conosciuto la guerra per visto fare e non per sentito dire. Non ha mai porto l’altra guancia, non si è mai atteggiato a eroe o santo. Neppure adesso che il destino gli ha palleggiato in faccia con le armi più subdole dobbiamo dimenticare l’allenatore che era e che è. Per principio, sono visceralmente contrario ai cambi in corsa, e così – la scorsa stagione – restai infastidito dalla rimozione di Filippo Inzaghi. Chiamatelo pronostico sbagliato (uno dei troppi). Chiamatelo partito preso. Chiamatelo come vi pare: arrivò Sinisa e nacque un altro Bologna. O meglio ancora: un Bologna di un altro gioco, di un «bel» gioco. 

E sia chiaro: il dolore – legittimo, sentito (da lui, dalla sua meravigliosa famiglia) e condiviso – non può e non deve sabotare i pregi e i limiti, dilatandone o riducendone artificiosamente i confini. Lo ha detto e preteso Sinisa stesso, quando a Coverciano si pensava di premiarlo «alla malattia»: giudicatemi per il mio lavoro, non per il resto. Anche se è un «resto» che pesa, che accerchia, che graffia. (Lo premiarono, poi, con una targa speciale).

La Bologna di Gianfranco Civolani, maestro caro e inarrivabile. Il Bologna di Mihajlovic, guerriero indomito. Romanzi tra memoria e cronaca. Sinisa era già stato in città nel novembre 2008. Buttò semi che non gli fecero (o non seppe) raccogliere. Il postino, però, suona sempre due volte. «Aspettiamo che ritorni la luce/di sentire una voce/aspettiamo senza avere paura, domani»: se gli americani ci hanno dato Dallas, Bologna ci ha dato Dalla. 

Buon compleanno, Sinisa.

 

ROBERTO BECCANTINI  

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