Calcio
Quattro storie di calcio e politica – 03 Apr
Il calcio e la politica sono due cose molto diverse che però, nel corso del secolo di storia di questo sport, hanno avuto numerosi intrecci. I più famosi regimi del mondo hanno sempre visto infatti il calcio, lo sport del popolo, come un mezzo di propaganda, interferendo con esso e spesso finendo per piegarlo ai propri fini.
Queste sono quattro storie in cui la politica è entrata prepotentemente, spesso tragicamente, nel mondo del calcio.
Mathias Sindelar, il campione che non si piegò al nazismo
Nato nei primi anni del ’900 in quello che era l’Impero Austro-Ungarico e trasferitosi con la famiglia pochi anni dopo a Vienna, Sindelar impara a giocare per strada con un pallone di stracci. Il padre muore nella Grande Guerra, ed è il calcio a salvarlo dalla fabbrica: il suo talento viene notato dalla locale squadra dell’Hertha Vienna, con la quale esordisce a 17 anni. Gli esordi sono molto promettenti, ma a vent’anni si infortuna gravemente: lesione del menisco, che a quei tempi significa carriera finita. Così non è, grazie ad un luminare austriaco e ad una ginocchiera elastica che lo accompagnerà in ogni partita, torna a giocare.
Eduard Streltsov, il Pelé bianco confinato in Siberia
Talento precocissimo, negli anni ’50 Streltsov è una punta completa dotata di fisico, tecnica e intelligenza tattica che brucia le tappe in modo impressionante: a 13 anni surclassa già avversari di qualche anno piu’ grande, a 17 fa il suo esordio nella massima serie russa giocando tutte le gare in quella che sarà la squadra della sua vita, la Torpedo Mosca. Nello stesso anno gioca anche la sua prima gara in Nazionale, segnando una tripletta contro la Svezia.
Per la cronaca la Nazionale, che il Regime ha deciso di privare del suo talento, ai Mondiali del 1958 sconfiggerà solo l’Inghilterra (devastata dalla tragedia occorsa al Manchester United, che in uno schianto aereo ha perso l’intera squadra, spina dorsale della Nazionale) e uscirà sconfitta proprio dalla Svezia futura finalista, la stessa squadra a cui Streltsov aveva rifilato tre gol, e a nulla varranno i prodigi del portiere Jascin. Anche se indebolito dalle privazioni patite in prigione, la classe è sempre cristallina: si sposta indietro, in campo, passando dal ruolo di punta a quello di suggeritore, ed in questa veste trascina la squadra al titolo, il secondo della sua storia – il primo lo avevano vinto i compagni pochi anni dopo il suo internamento, in suo onore. Con il tempo tornerà a giocare, ultratrentenne, anche con la Nazionale, dove tuttora è il quarto giocatore di sempre per numero di reti. Un traguardo impressionante, se si pensa che nella parte migliore della sua vita, dai vent’anni e per otto anni, non ha potuto giocare a calcio. In Russia ancora oggi il colpo di tacco viene chiamato “lo Streltsov” in suo onore, dato che era un numero che usava spessissimo e con ottimi risultati.
Muore nel 1990, il giorno dopo il suo 53° compleanno, per un cancro alla gola causato dal cibo contaminato consumato in prigionia. Molti anni dopo Marina Lebedeva, la donna che secondo il KGB lui avrebbe stuprato, verrà vista depositare fiori sulla sua tomba. In suo onore la Torpedo Mosca ha eretto due statue. Il suo nome avrebbe potuto essere inserito nella lista dei grandi del calcio, ma la politica ha voluto diversamente e così è stato sprecato “il piu’ grande talento calcistico sovietico di sempre fuori dai pali”, come è stato chiamato da molti esperti per sottolineare la sua classe sconfinata, inferiore solo a quella di Jascin.
Dinamo Berlino, la squadra che doveva vincere sempre
Che infine arriva grazie a numerosi altri trasferimenti forzati, arbitraggi clamorosamente compiacenti e minacce piu’ o meno velate di ritorsione in caso di ribellione: anche nel calcio, come nella vita di tutti i giorni, il sogno comunista lascia ben presto il posto alla violenza della Stasi, che deve vincere.
Arrivano ben 10 titoli nazionali consecutivi, alcuni colti tra autentiche rivolte popolari, e la squadra rappresenta la Germania dell’Est anche all’estero, dove però rimedia spesso magre figure vista l’assenza del clima compiacente che respira nel proprio campionato.
Jorge Carrascosa, la bandiera dei “desaparecidos”
Jorge Carrascosa era un terzino destro argentino piccolo e arcigno: non baciato dal talento cristallino dei veri campioni, rimediava grazie alla grinta e alla tenacia che gli erano valsi il soprannome di “El Lobo”, il Lupo, che indicava anche un carattere forte ed indipendente. Aveva giocato due stagioni con il Banfield, all’esordio, e altre due con il Rosario Centràl, prima di trasferirsi nella squadra della sua vita, l’Huracàn di Parque Patricios, un sobborgo di Buenos Aires. Pur privo di particolare talento, come detto, si era presto imposto nel suo ruolo grazie alla tenacia e alla continuità di rendimento, diventando un punto fisso della Nazionale: sarebbe stato addirittura il capitano dell’Argentina nei Mondiali che gli albi-celeste si apprestavano a disputare in casa, nel 1978. Era un paese, l’Argentina di quegli anni, guidato dal regime militare dei fondomonetaristi capeggiato dal Generale Jorge Videla: un paese dove regnava il terrore e dove i dissidenti, o anche solo i presunti dissidenti, venivano arrestati un giorno e non tornavano mai piu’.
Coloro che facevano questa fine erano noti come i “desaparecidos”, gli scomparsi, perché nessun certificato ne indicava la morte e nessun corpo rimaneva ai familiari da piangere o seppellire: molto spesso la vita dei desaparecidos terminava in fucilazioni sommarie, molto piu’ spesso in voli nell’oceano, gettati da elicotteri che partivano carichi e tornavano vuoti. In molti sapevano, ma fingevano di non sapere: i calciatori dell’Argentina non facevano eccezione, e così purtroppo anche i vari paesi partecipanti alla Coppa del Mondo, che lodavano l’ospitalità dei militari e giocavano le partite del Mondiale mentre a pochi metri di distanza da quei campi le morti continuavano incessantemente. L’Argentina vinse quei Mondiali del 1978, sospinta da una squadra grandissima sul campo e moralmente incapace di ribellarsi ad un regime tanto spietato. I protagonisti furono gli attaccanti Mario Kempes (capocannoniere del torneo) e Leopoldo Luque; il fantasista Daniel Bertoni; i difensori Tarantini e Passarella.
Jorge Carrascosa, nel 1978, nell’Argentina dei militari, dei genocidi e dei desaparecidos, non ha vinto la Coppa del Mondo.
Eppure Jorge Carrascosa, che veniva chiamato “El Lobo” per via del suo carattere forte e indipendente, probabilmente è stato, ai Mondiali del 1978, il solo autentico Campione.
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