Bologna FC
FINALI – Il Fascismo, il Bologna e la pistola
“La più grande attrazione di ognuno di noi è verso il passato, perché è l’unica cosa che noi conosciamo e amiamo veramente.” (Pier Paolo Pasolini)
Storia del primo trionfo nazionale del Bologna, denominato “Scudetto delle sette pistole” e vissuto tra l’ombra del Fascismo e un sistema sportivo dettato dal caos.
Il filo conduttore di questo racconto si frammenta tra temi sportivi e storici. Il 1925 fu un buffo anno per il bel paese, con l’ombra del Fascismo che si fece sempre più prorompente. Benito Mussolini si assunse le responsabilità dell’omicidio Matteotti, dando il via a una nuova epoca. In seguito perfezionò l’identificazione del PNF con lo Stato, imponendosi come dittatore assoluto. In quel periodo, il calcio era visto dai fascisti come uno sport secondario, venendo sorpassato da attività più nobili come il cricket e il rugby.
Tuttavia, questi sport non riuscirono a conquistare le persone. Cosa che riuscì a fare il calcio, unico sport in cui le masse popolari si raffiguravano alla perfezione. L’azione di propaganda fascista si esercitò quindi, oltre che attraverso il cinema e la radio, anche grazie alla notorietà di questo nuovo sport. Ci fu una diatriba sull’esatta provenienza del calcio: alcuni erano convinti di come fosse l’evoluzione di una scoperta fiorentina, altri appoggiarono l’idea di un’esportazione dal Mezzogiorno, in particolare da Napoli. Vinse però la tesi che vide gli inglesi come i primi a condurre lo sport in Italia, innanzitutto a Genova dove sorsero le prime squadre dilettantistiche.
L’interesse del Fascismo verso il calcio avvenne all’inizio del 1926 con la stesura della Carta di Viareggio: il documento aveva lo scopo di riordinare il calcio italiano, sia dal punto di vista dello statuto dei calciatori, sia dal punto di vista dell’organizzazione della Federazione. Fu la prima svolta per il passaggio del calcio al professionismo. Tale decisione avvenne dopo i fatti del 1924 (celebre fu il caso Rosetta, passato tra mille polemiche dalla Pro Vercelli alla Juventus) ma, soprattutto, dell’anno precedente che coinvolsero il Bologna, il Genoa e tutto il calcio italiano.
Il campionato italiano del primo ventennio del 900 era assai diverso rispetto al nostrano: cambiavano regole e modalità. All’epoca esisteva la Prima Divisione, formata dalla Lega Nord e dalla Lega Sud: il lato Nord era costituito a sua volta da due gironi interregionali, dove le due capoliste si affrontavano in una finale unica. Il Sud si organizzava invece in base ai campionati di Lazio, Puglia, Campania e Sicilia. Accedevano alla fase nazionale i campioni regionali più le seconde classificate e l’Anconitana, l’unica squadra marchigiana. Le semifinaliste venivano dislocate in due gironi a quattro, con le vincitrici che si sarebbero poi affrontate in finale.
Nel primo girone del Settentrione, i campioni uscenti del Genoa erano i favoriti per il passaggio del turno: in rosa erano presenti calciatori di buon livello come Ettore Neri, Edoardo Catto e Cesare Alberti, appena prelevato dal Bologna. Il cammino fu però altalenante, vista anche l’età avanzata dei propri calciatori e qualche battuta d’arresto evitabile: ne approfittò il Modena degli ungheresi Laszlo Gonda e Ferenc Konya, che diede filo da torcere al Grifone per buona parte del campionato. Negli ultimi due turni successe l’incredibile: gli emiliani caddero allo Stadio di Viale Piave di Brescia e i liguri ne approfittarono, qualificandosi alla finale di Lega. Nell’altro girone, il Bologna di Angelo Schiavio e Gastone Baldi stupì tutti superando la concorrenza di Juventus e Pro Vercelli, favorite a inizio stagione: fatale fu la sconfitta dei bianconeri a Vercelli, che non seppero approfittare della sconfitta dei felsinei contro l’Alessandria.
In finale di Lega Nord si sarebbero dunque scontrate Genoa e Bologna. La prima sfida fu il 24 maggio del 1925 allo Sterlino di Bologna: vinsero gli ospiti per 2 a 1 grazie alle reti di Cesare Alberti ed Edoardo Catto. A nulla servì il gol di Angelo Schiavio. Nella sfida di ritorno, una settimana dopo, la sicurezza giocò un beffardo scherzo ai liguri, che videro espugnare Marassi con il medesimo risultato dell’andata: decisive le reti dei due Giuseppe, Muzzioli e Della Valle. Servì quindi uno spareggio, che si sarebbe giocato una settimana più tardi al Viale Lombardia, Milano.
I primi disordini avvennero nel prepartita, con i tifosi – di entrambe le squadre – che superarono ampiamente il numero limite di posti disponibili nell’impianto lombardo. L’arbitro dell’incontro, Giovanni Mauro, era contrario alla disputa della gara; fu decisivo l’intervento di Enrico Olivetti, presidente della Lega Nord, che convinse il direttore di gara a fischiare l’inizio del match. Finalmente si iniziò. Tutto filò liscio fino al 16′ della ripresa quando, con il Genoa avanti per 2 a 0, il Bologna si vide annullare una rete valida.
“…un tiro di rara potenza che De Prà riuscì a malapena a deviare e uscì lambendo il montante. Mauro fischiò il calcio d’angolo, ma si ritrovò circondato da una turba minacciosissima di Bolognesi in camicia nera che spalleggiavano capitan Della Valle e lo accusavano di essersi fatto comprare dai Genoani: non l’aveva visto che il pallone era entrato in rete e ne era uscito attraverso uno squarcio?”
Da lì, il disordine. I tifosi bolognesi aggredirono con minacce e spintoni l’arbitro Mauro che, per far finire l’incontro, convalidò il gol di Muzzioli. A pochi minuti dalla fine arrivò anche il pareggio felsineo ad opera di Pozzi. 2-2, sarebbe dovuto arrivare il tempo dei supplementari. Non arrivò mai. I liguri si rifiutarono, convinti che il direttore di gara avrebbe – nei giorni successivi – ammesso il tutto. Non fu così. Secondo alcuni ci fu lo zampino di Leandro Arpinati, capo dei fascisti bolognesi; secondo altri, invece, il gol era semplicemente valido.
La sintesi fu questa: un ulteriore spareggio da giocare a Torino, il 5 luglio. Sul campo della Juventus, le due compagini inciamparono in un altro pareggio. Quel giorno gli scontri non ci furono in campo, bensì alla stazione di Torino Porta Nuova: genoani e bolognesi arrivarono alle mani, qualcuno addirittura premette il grilletto. L’ombra fascista era sempre più insidiata nei pensieri di quel collettivo di vandali.
Intanto, la sfida tra Genoa e Bologna non aveva ancora un finale scritto. Le maggiori responsabilità dei tifosi bolognesi avrebbero causato l’assegnazione della gara al Genoa. Questo non avvenne. Ci fu invece una rivolta delle massime autorità bolognesi, guidate dal prefetto, Arturo Bocchini, graffianti nel contestare la mancata imparzialità della Federazione. Dopo gli ennesimi scontri, l’assemblea di Lega Nord a Parma decise per l’ennesimo spareggio. Serviva un finale per questa storia.
La quinta gara si sarebbe giocata a Milano, il 9 agosto. Un’organizzazione così non si era mai vista: le due società vennero avvisate del luogo dell’incontro solamente il giorno prima. Si sarebbe giocato a porte chiuse, alle sette di mattina: il tutto per evitare caos e scontri, anche perché da entrambe le parti c’era la volontà di terminare quell’infinita sfida. A bordocampo erano presenti solo i dirigenti e diversi addetti ai lavori.
Le autorità scelsero il quartiere di Vigentino, a Milano, per far disputare l’incontro. Un luogo silenzioso e isolato, l’ideale. Il campo da gioco – invece – si chiamava “Forza e Coraggio”, quasi un invito a cessare le ostilità. I genoani si cambiarono fuori dagli spogliatoi, mentre i bolognesi arrivarono al campo già in vesti da gioco. Giunsero in maglia verde, e non nera come affermavano in molti. Dopo ampie raccomandazioni da parte del vicepresidente della Lega, Ferretti, l’arbitro Gama fischiò l’inizio del match.
Una semplice finale si era trasformata in un affare di stato. In panchina non c’era alcun cordone di camicie nere, come raccontato per anni. Solo un clima disteso e due squadre pronte a darsi battaglia. Aprì le marcature Pozzi al 28′. I felsinei erano in pieno controllo del gioco. Nel frattempo, a bordocampo, i due allenatori – Hermann Felsner e William Garbutt – seguivano la partita tra chiacchierate amichevoli. Come in famiglia. Nel secondo tempo, nonostante le espulsioni di Alberto Giordiani e Giovanni Borgato, il Bologna raddoppiò con Perin: 2-0. E la festa poté cominciare.
Finì tutto alle nove e un quarto di quel folle mattino. Dopo una foto di gruppo, il Bologna iniziò a festeggiare. Entrarono in campo, oltre all’allenatore, anche Enrico Sabattini e Arrigo Grani: il primo inventò la maglia verde, il secondo la tradizionale casacca rossoblu dei felsinei.
Fu un titolo del Nord molto discusso. Tra minacce, spari e disordini vari, tutto sembrò tranne che una gara di calcio. La finalissima, giocata tra il Bologna e l’Alba Roma, avrebbe in seguito portato – per la prima volta nella storia felsinea – il titolo nazionale sotto le due Torri. Fu un’annata particolare, ma il Bologna – giustamente – esultò.
Tra infiniti stadi, spari di pistole e l’ombra del Fascismo che ormai si era impossessata della penisola, la squadra di Hermann Felsner sparò alle polemiche e conquistò legittimamente uno Scudetto sudato sul campo.
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