Calcio
Milan, Kaká e le minestre riscaldate – 19 Set
Quello che si è appena concluso è stato un buon calciomercato, per il campionato italiano: diverse squadre hanno proseguito un progetto avviato (Fiorentina e Juventus su tutte) mentre altre (Inter e Roma) sembrano finalmente averne avviato uno convincente.
La Serie A ha perso Jovetic, Cavani e Boateng, ma ha trovato campioni come Mario Gomez, Higuain e Kaká pronti a sostituirli. Ed è su quest’ultima operazione, quella che riguarda Kaká, che vorrei soffermarmi oggi. All’indomani del superamento dei preliminari di Champions League, una partita cruciale per il Milan e per il calcio italiano (siamo in deficit, nel ranking UEFA, ed un eliminazione dei rossoneri era davvero becero desiderarla), i tifosi rossoneri si sono svegliati con una notizia-bomba: Kevin Prince Boateng, decisivo nell’incontro della sera precedente con due reti e fresco centenario di presenze con la squadra, lasciava il Milan e il calcio italiano per tornare in Germania. Anzi, era già a Gelsenkirchen per le visite mediche. Qualche giorno dopo è arrivato il suo sostituto. A parametro zero. Un ex-Pallone d’Oro. Era il ritorno del figliol prodigo, il ritorno – dopo quattro stagioni – di Kaká.
Ricardo Izecson dos Santos Leite, per tutti appunto Kaká, si era trasferito al Milan nel 2003, poco più che ventenne, per circa 9 Milioni di euro. In Brasile aveva dato spettacolo, ma del resto non sempre l’impatto di chi è fenomeno laggiù risulta ugualmente incisivo anche nel nostro campionato. Beh, non fu il caso di Kaká, da subito decisivo con 10 reti che trascinarono il Milan allo Scudetto, e le stagioni successive protagonista di una squadra che perde in modo assurdo una finale di Champions League con il Liverpool ma che, due stagioni dopo, si rifà proprio sugli inglesi conquistando il massimo trofeo continentale. Nel 2007 conquista meritatamente il Pallone d’Oro, surclassando Messi e Cristiano Ronaldo: meritatamente, perché quel giocatore ha tutto quello che serve per essere un fenomeno, velocità e capacità tecniche, altruismo e capacità di finalizzare. Insomma, Kaká è il più forte calciatore al mondo, in tanti lo vogliono ma lui sembra resistere al Milan, rifiutando l’offerta dei “nuovi ricchi” del Manchester City, pure se va detto che i “Citizens” sono ancora lontani da essere lo squadrone che diventeranno in seguito. Nell’estate del 2009, però, improvvisamente i tifosi rossoneri si scoprono orfani del loro campione: per 67 Milioni di euro, infatti, Kaká passa al Real Madrid, la squadra più prestigiosa del mondo.
Saranno quattro stagioni difficili per il brasiliano, prima fermato da una fastidiosa e protratta pubalgia e poi ai margini di uno squadrone che non ha tempo di aspettare nessuno: ne Manuel Pellegrini ne José Mourinho lo vedono mai come il perno della squadra, ma nell’estate del 2013 arriva sulla panchina dei blancos Carlo Ancelotti, che sembrava avere una predilezione per il suo talento. Non è così, il Real acquista, nella trequarti che Kaká ama percorrere, il giovane talento Isco ed il poderoso gallese Bale, e quindi per l’ex-Pallone d’Oro il messaggio è chiaro: è ora di cambiare aria.
Anzi, come appunto abbiamo visto, è ora di tornare dove tutto era cominciato, in quello che è sempre stato il “suo” club. A parametro zero, e riducendosi fortemente l’ingaggio senza nemmeno spalmarlo, Kaká torna al Milan. Sarà lui il sostituto di Boateng, sarà lui il perno d’esperienza di un Milan giovane e rinnovato. I critici si dividono, chi pensa che sarà un bidone, una delusione, visto che il fisico pare arrugginito in modo irreparabile. Chi, al contrario, sostiene che i piedi sono sempre quelli divini di quando partì, che non sarà lo stesso Kaká del 2007 ma che sarà pur sempre un valore aggiunto alla Serie A e al Milan.
Solo il tempo ce lo dirà, ma una cosa è certa, Kaká non è la prima “minestra riscaldata” in tinte rossonere. Altre volte è successo, anche se gli esiti sembrerebbero consigliare ai tifosi dei diavoli almeno un po di prudenza, cosa che non si è verificata, visto che il ritorno del brasiliano (“il ragazzo che ogni madre vorrebbe vedere come fidanzato della figlia”, disse di lui Berlusconi) ha generato entusiasmo ed un aumento delle vendite degli abbonamenti.
Ma perché i tifosi rossoneri dovrebbero temere, se non altro per scaramanzia, il ritorno di Kaká? Quali sono stati i casi andati male di “minestra riscaldata” a tinte rossonere?
La prima che mi viene in mente è la storia di Ruud Gullit.
Arrivato nel 1987 e nel pieno della maturità calcistica, Gullit era un vero campione, un calciatore che pressava come un difensore, rifiniva come una mezzapunta e segnava come un attaccante: dalla scuola olandese del calcio totale arrivava quindi un “calciatore totale”, capace di trascinare il Milan di Sacchi prima e di Capello poi nel periodo più vincente della storia rossonera. In carriera vincerà gli Europei con l’Olanda nel 1988, il Pallone d’Oro (1987) e con il Milan tre Scudetti, due Champions League (allora Coppe dei Campioni) e due Coppe Intercontinentali. Gullit è uno dei giocatori simbolo di quegli anni, le sue treccine entrano nell’iconografia del calcio. Nel 1993, si dice stressato per via dell’impegno costante che richiede giocare in una grandissima squadra come il Milan di allora, si trasferisce alla Sampdoria, allora buonissima squadra ma non certo pari ai rossoneri.
L’impatto con i blucerchiati è devastante, Gullit sembra rinascere e segna gol pesantissimi trascinando i genovesi al terzo posto in campionato e alla vittoria della Coppa Italia. Al Milan si accorgono di aver fatto un errore a lasciarlo andare, magari qualcuno lo considerava finito ma così non è, e la prova è l’euro-gol che segna proprio al Milan in una sconfitta dei rossoneri per 3 a 2 proprio con la Sampdoria. E’ bastata una stagione così per convincere i dirigenti milanisti che Gullit deve tornare, ed è quello che succede: Gullit torna al Milan, ma non è più lui. E’ infelice, poco motivato, lo spogliatoio non lo vede più di buon occhio. La storia dura appena qualche mese, poi nel mercato invernale ecco il ritorno clamoroso alla Sampdoria, dove giocherà discretamente prima di lasciare l’Italia.
Non solo i calciatori possono essere cavalli di ritorno: persino gli allenatori, ed è così che accade per Arrigo Sacchi, chiamato al capezzale di un Milan che con Tabarez sembra aver sbagliato completamente indirizzo – pur se l’allenatore uruguaiano fu davvero sfortunato, a mio avviso. Sacchi era arrivato al Milan nel 1987 con idee chiare e decise, rivoluzionando non solo i rossoneri ma tutta quanta la mentalità del calcio italiano. Per molti è considerato uno dei più grandi allenatori della storia, e chi lo ha visto non può dimenticare come giocava quel Milan: difesa alta, pressing asfissiante, fuorigioco sistematico e classe da vendere negli ultimi 16 metri. Quel Milan era invincibile, si presentava sul campo di qualsiasi squadra imponendo il proprio gioco, schiacciando e a volte ridicolizzando l’avversario. Furono 4 stagioni favolose, quelle che legarono Sacchi al Milan, e portarono in dote uno Scudetto, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali e due Supercoppe Europee.
Per ottenere certi risultati, però, il dispendio fisico ma soprattutto psicologico era incredibile, e dopo appunto quattro stagioni Sacchi lasciò la squadra, in rotta con lo spogliatoio che cominciava a non digerire più i suoi metodi di allenamento.
Andò ad allenare la Nazionale, che tentò di trasformare in una squadra di club prima convocando una pletora di calciatori in cerca degli interpreti ideali (Sacchi, dovendo scegliere, preferiva i giocatori buoni ma disciplinati tatticamente ai campioni anarchici) poi organizzando stage su stage e infine andando su blocchi collaudati: la difesa del Milan, il centrocampo della Juventus eccetera eccetera. Furono 5 anni tra alti e bassi, ma arrivò pur sempre una finale dei Mondiali (USA 1994) persa solo ai rigori. Dopo aver deluso ampiamente agli Europei del 1996, però, Sacchi lasciò in una notte l’Italia per correre al capezzale del “suo” Milan, che dicevamo annaspava sotto la guida di Tabarez.
Purtroppo però le cose non andarono come tutti speravano, quel Milan non era più il “suo” Milan e i giocatori erano restii ad assimilare le sue idee tattiche: in Champions League fu un disastro (tra cui una clamorosa debacle all’esordio con i norvegesi del Rosenborg) e in campionato fu 11° posto, fuori da qualsiasi coppa. Insomma, non era cosa, e Sacchi lasciò così i rossoneri da sconfitto, non certo da vincente come aveva fatto 5 stagioni prima.
Al Milan forse pensarono che in effetti Sacchi era si un simbolo, ma di un passato troppo remoto. Magari qualcuno di “più recente” avrebbe avuto un altro effetto. E poi, che cavolo, che senso ha parlare di “minestre riscaldate”? Se uno va bene va bene, se va male va male, ma non c’entra il fatto che torni o no in un determinato ambiente.
Questo disse Galliani quando, la stagione successiva al fallimentare Sacchi-bis, presentò alla stampa il suo successore. Come già era successo, il successore del mago di Fusignano fu Fabio Capello, che proprio al Milan aveva iniziato la sua brillante carriera da allenatore.
Accolto con scetticismo, Capello aveva trasformato il Milan sapendo gestire al meglio le risorse dei “reduci di Sacchi”: non più una squadra a cento all’ora, sempre alla ricerca dello spettacolo, ma una squadra più ragionata capace comunque di dare improvvise sterzate alla partita e con una difesa meno estrema della controparte sacchiana ma sempre imperforabile. Quel Milan passerà alla storia come “il Milan degli Invincibili”, e quando Capello lascia per andare al Real Madrid il suo curriculum parla chiaro: 4 Scudetti di cui 3 consecutivi, una Champions League vinta e due finali perse in sole 5 stagioni.
Capello va al Real, e vince un campionato, giusto per rimanere allenato. Quindi, dopo appena una stagione ecco il ritorno al Milan, come abbiamo visto reduce dal fallimentare ritorno di Sacchi. Arrivano giocatori che saranno tutte meteore, e cioè Davids (deludente nella sua parentesi rossonera, poi campione vero alla Juventus), Bogarde, Andreas Andersson e Jesper Blomqvist, mentre hanno lasciato per limiti di età Baresi e Tassotti.
La difesa proprio non c’è, i nuovi sono impalpabili e in attacco Ganz e Weah non bastano: alla fine della stagione il Milan è 10°, ancora fuori dalle coppe, e Capello saluta, anche se il tempo poi dirà che le colpe non erano certamente sue, visto che la sua carriera successiva tornerà ad essere quella di un allenatore tra i top del mondo, impreziosita tra l’altro dalla vittoria dello Scudetto (il terzo della storia, il primo dell’era moderna) con la Roma.
Torniamo ai calciatori: come abbiamo visto, Kaká è un ex-Pallone d’Oro, e così era anche Gullit quando tornò. Se due indizi non fanno una prova, ecco il terzo: il ritorno al Milan di Andrji Shevchenko, uno dei più forti calciatori della sua generazione, per alcuni persino superiore per certi versi al “Fenomeno” Ronaldo.
Fuggito con la famiglia dal disastro nucleare di Chernobyl, Shevchenko era esploso nella Dinamo Kiev allenata dal santone del calcio sovietico Valeriy Lobanovskyi, che lo aveva cresciuto con il mito del “calcio del futuro”, una derivazione russa del “calcio totale” olandese che prevedeva che ogni calciatore sapesse fare tutto in campo e a 100 all’ora. Quella Dinamo Kiev vinse 5 campionati ucraini consecutivi, e “Sheva” era un concentrato di potenza e rapidità, classe a sapienza tattica. Quando giunse al Milan si impose definitivamente come uno dei calciatori più forti al mondo: 24 reti in 32 gare alla prima stagione in Italia, poi un rendimento sempre altissimo che portò al Milan uno Scudetto, una Coppa Italia e una Champions League e all’ucraino due titoli di capocannoniere della A ed il Pallone d’Oro del 2004. Dopo 127 reti in 208 gare solo nel campionato, e dopo ben sette stagioni, Shevchenko viene acquistato a suon di miliardi dal Chelsea dell’oligarca russo Abramovich, suo grande ammiratore. Nonostante le premesse ci siano tutte, saranno due stagioni fallimentari per lui in Inghilterra, dove segnerà la miseria di 9 reti in poco meno di 50 incontri. Ed ecco che nel 2008, appena due anni dopo averlo lasciato, “Sheva” torna al Milan, che con lui sogna di tornare ad altissimi livelli. Lo Shevchenko che aveva incantato San Siro è però solo un pallido ricordo, al suo posto c’è un calciatore confuso, acciaccato e sfiduciato: 18 gare, nemmeno un gol (!) e ovviamente il mesto ritono al Chelsea, visto che era stato acquistato addirittura in prestito. Anche questa volta la “minestra riscaldata”, come nei casi di Gullit, Sacchi e Capello, è rimasta sullo stomaco a tutti, dirigenti e tifosi.
Ed eccoci quindi ai giorni nostri: Kaká è tornato al Milan, l’entusiasmo è alle stelle, e come i suoi predecessori rappresenta un simbolo di una squadra vincente come i rossoneri attualmente non sono. C’è chi dice che sia ancora rotto, chi che semplicemente manchi di ritmo e fiducia; chi dice che sia finito, chi fa notare che ha appena 31 anni; chi che non corra più come un tempo, chi sottolinea che i piedi sono sempre quelli.
La storia del calcio è piena di giocatori che alla sua età erano già ex-calciatori, come anche di chi in quel periodo ha iniziato una seconda carriera, addirittura a volte più redditizia e soddisfacente di quella precedente. I tifosi del Milan, per la maggior parte, sono fiduciosi, i critici scettici, ma questo fa parte del calcio e del tifo. Personalmente ritengo che il successo di un calciatore o di un allenatore non dipendano quasi mai da lui ma da tutto un contesto che o funziona oppure non funziona, e che se il Milan saprà dare i giusti stimoli a questo (ex?) campione Kaká sarà ancora capace di elettrizzare San Siro e il campionato italiano. Magari non con quelle progressioni “coast-to-coast” che lo hanno reso celebre, ma con la tecnica che certamente non gli manca. Gli stimoli potrebbero giocare un ruolo chiave in questa storia, visto che tra un anno si gioca il Mondiale in Brasile e Kaká vuole giocarlo da protagonista. Certo, è vero però che i precedenti casi di “minestra riscaldata rossonera”, anche se fosse solo una statistica scaramantica, non fanno ben sperare.
Il tempo, come detto a inizio articolo, ci darà la risposta. Di sicuro, però, quella che sarà la storia di Kaká è un motivo in più per seguire con passione questa Serie A 2013-14.
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