Calcio
Ciao Paolo, eroe di un calcio popolare
Il 5 luglio 1982 la signora Cassano e la signora Gilardino erano in travaglio. O meglio, alla fine del travaglio. Nascevano Alberto e Antonio, in due parti opposte d’Italia, ma avranno modo entrambi, nel tempo, di ritrovarsi. Altri chilometri più in là, al Sarrià di Barcellona, uno stadio che non esiste più, si giocava la partita che Piero Trellini ha affrescato nel suo ultimo libro. Semplicemente, Italia-Brasile 3-2, “la partita”, come dal titolo del volume. La nazionale verdeoro di Tele Santana, forse il Brasile più bello di sempre insieme a quello campione nel 1970. Ultima chiamata, ultimo appello. Un giocatore di quella nazionale, ebbe a dire: “Se avessimo segnato il 3-3, Rossi avrebbe fatto il 4-3. E così via”.
Sì perché il travaglio che finisce è anche quello del campione di Prato, che dopo i patimenti di un male ai polmoni, se n’è andato. Portandosi dietro quel caldo pomeriggio spagnolo, preludio al secondo Mondiale dell’Italia, perché fino a quel momento, il primo Mondiale era andato così così. Silenzio stampa deciso da Bearzot dopo le critiche feroci alla squadra in quelle prime deludenti partite, ma soprattutto dopo il fresco scandalo del calcioscommesse e le condanne, che riguardarono anche lui, che più che colpevole fu solo preda di una leggerezza. Pareggi con Perù, Polonia e Camerun, passaggio del turno per il rotto della cuffia. E poi la trasformazione, con le volate di Conti e i gol di Rossi, nel frattempo divenuto “Pablito”, che portano sino al 3-1 alla Germania.
E pensare che Pruzzo, 22 reti, quel Mondiale se lo vide da casa. Rossi era tornato a giocare nel mese di maggio, alla Juventus, e poteva essere tutto tranne che il centravanti titolare in una competizione così. Bearzot, grande allenatore e soprattutto pescatore di uomini, puntò dritto su di lui contro la più feroce bufera di vento mediatico nella storia della Nazionale italiana. Ed ebbe ragione. Sei reti, quella tripletta al Brasile in quel pomeriggio dove chissà quanti altri gol poteva fare. La palla spinta in porta di testa alla Polonia, sempre a Barcellona, Campo Nou stavolta, e uno dei sigilli in finale contro i tedeschi. Amen.
Ma Rossi non è stato solo quello del 1982. E’ stato soprattutto quello della fine degli anni Settanta, in un Vicenza che prima porta in A (1976-77) vincendo la classifica cannonieri, e poi porta a un passo dallo scudetto nel 1978, nel campionato finito dietro alla Juventus, vincendo ancora una volta il titolo di tiratore scelto e il Mondiale in Argentina dove una bella Italia arriva quarta, e fissa il telaio per ciò che accadrà quattro anni dopo. E’ durato poco Rossi (tre menischi, problemi alle ginocchia che lo hanno condizionato sin da ragazzo), ma ha brillato come e più di una cometa. Di lui, anche i milanisti hanno un ricordo ben preciso: come Gianni Comandini nel 2001, anche lui segnò gli unici due gol della sua permanenza in rossonero in un derby. Era il 1° dicembre 1985, 2-2. E’ stato un eroe moderno di un calcio popolare. E se è vero com’è vero che i Mondiali scandiscono i tempi della nostra vita, quest’oggi, chi piange Rossi, forse piange anche un pezzo della sua gioventù.
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