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Il volo del Paso, il centauro immortale

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Maggio 1973, Italia. Si vive bene, non è di certo l’era del grande boom economico ma si vive bene. È anche l’epoca della grande musica leggera o “leggerissima” e si viaggia con la musica di Battisti e di Mina. Il 20 maggio all’autodromo di Monza si corre un seguitissimo Gran Premio delle Nazioni di motociclismo. Corrono la 350 e la 125, ma soprattutto si attende la mitica la 500. E, fra queste, la sfida sulle 250 cc.

Oggi vi raccontiamo la storia di una partenza diventata tragedia già al primo giro: una manciata di feriti gravi, moto accartocciate, fuoco, sirene, estintori e infine, due morti. Uno — capello corteccia, steso nella tuta nera accanto al guard rail affilato come una lama, come in una classica tragedia omerica — è Renzo Pasolini (classe 1938) da Rimini. Un «Gilles Villeneuve delle due ruote». Forse, però, più un James Hunt delle due ruote. Una persona che nella vita è stato anche un Pugile-centauro; condensato di attributi, con una testarda attitudine all’attacco del pericolo.

È uno dei primi eventi che scuote gli italiani, sconvolge le coscienze di organizzatori incantati dallo spettacolo. Un evento che s’incastona nella storia dello sport nazionale, come una pietra miliare, ma forse assomiglia più ad un salice piangente.

LA POETICA DEL CENTAURO. Renzo viene da una famiglia di centauri. “Il Paso” — papà Massimo era detentore di record di velocità —aveva iniziato col motocross alla fine degli anni 50, ma data la sua propensione al pericolo e al rischio si alterna tra pista e ring, con i suoi montanti e ganciati. Sua altra passione. Peccato solo per quello stile di vita un po’ troppo bohemien tra donne e alcol. Renzo è una di quelle persone che fa spalle a spalle alla vita, ma soprattutto al proprio talento. Irriverente a ogni paura: sigarette, Sangiovese giù a fontana e mangiate infinite fra una balera e l’altra.

Fin da giovanissimo sulle due ruote un concentrato alcolico di anarchia motociclistica; nel rispetto solo del proprio istinto e con il gas al massimo. Le curve sempre sul della caduta e a manetta, sempre. Un equilibrio perfetto fra ordine e caos. Rischio e calcolo. Vita e morte.

LA CARRIERA. Si era fatto le ossa fra i juniores con vittorie importanti e prestigiose, poi da senior ecco la licenza e l’Aermacchi dal 1964: 250cc e 350cc. In sella a quest’ultima l’accesso al campionato iridato e un grandioso terzo nel 1966. In quegli anni spericolati ma brillanti, vincere contro le pluricilindriche è quasi impossibile, ma qualche perla arriva. Eccome se arriva. Dopo la chiamata alla Benelli, verso la fine del 1966, Pasolini — sigaretta in bocca alla Thomas Shelby, occhialone nero da giocatore di poker e ricci sbarazzini da “chi un due di picche non lo riceve mai” — debutta nello storico circuito di Vallelunga nella classe 500.

È il 1967. Agostini lo insegue, rischia e cade. È storia lunga quella della rivalità fra il super vincente Ago e il romagnolo dal sorriso a goccia. Il primo vince quasi sempre all’estero. Ma in Italia Paso vola; forse perché sente l’affetto del proprio pubblico. Di quegli anni la proposta di una sfida inedita; ad armi pari. Poi le case motociclistiche e la Federazione si oppongono e la corrida sfuma. Altro che Pamplona coi tori, noi avremmo avuto i centauri di Monza e di Spa. Che peccato.

IL VOLO. Intanto la sua carriera prende il volo. Nel 1968, Pasolini su Benelli è secondo dietro Agostini su Mv Agusta nella 350. Passano gli anni, le moto, le vittorie e i piazzamenti, ma sfuma il Mondiale. Sempre. Nel 1969 il titolo della 250 cc sembra suo: vince tre gare ma cade (e si ferma) più volte. Finisce quarto nella generale del campionato. Il titolo va al compagno Carruthers. Nel 1970 ritorna in 350 e la 500 con sempre Agostini nel mirino. Nel 1971 il ritono all’Aermacchi nell’occasione dell’ibridata con Harley-Davidson: qualche vittoria, ma il Mondiale sfuma. Ancora.

L’anno dopo sarà il migliore per lui: 6 vittorie in bacheca (13 piazzamenti e 6 volte terzo), Campione d’Italia nella 250 con tre Gp iridati vinti, ma per un solo punto non riesce a vincere il mondiale. In quella 250 vincerà Jarno Saarinen: in un’associazione, per certi versi tragica della vita.

L’ADDIO. Quel 20 maggio 1973, non parte nel migliore dei modi. Durante le prove il collega Bonera ha problemi con la moto e Renzo non ci pensa su due volte. Il riminese stacca il suo numero e presta la moto a Bonera. È l’ultimo suo atto di generosità. Uno dei tanti fatti in carriera. Il destino chiama. Nella prima sfida — sulle 350 cc — il romagnolo parte male, Agostini fugge solitario, il riminese rischia e recupera dieci secondi: ammucchia giri veloci, raggiunge il rivale, lo supera e lo stacca. “Ormai ha vinto” pensano tutti i presenti all’autodromo di Monza, ma non taglia il traguardo. Il motore grippa e se ne torna a piedi. 

La gente in tribuna si alza per rendergli omaggio. Passano i minuti e si riparte: è il momento della 250. La corsetta, la partenza, gli chiusi come una volpe sotto visiera, poi il curvone e lo schianto: piloti a terra, fiamme e dramma. Pasolini si abbatte contro il guard rail, Jarno Saarinen muore sul colpo travolto in faccia dalla moto del rivale; Renzo spira in cielo poco dopo. Otto piloti feriti, fra cui un altro campione Walter Villa, che si salverà a stento. Nessuno saprà mai la vera ragione tecnico-meccanica di quell’incidente: olio sulla pista dalla gara precedente o ennesimo grippaggio del mezzo di Pasolini. L’unica certezza è la tragedia.

«Io sono convinto che quando si deve morire, si muore» aveva detto in tv poco tempo prima l’intrepido romagnolo figlio della dea del coraggio e dei motori. Riposa in pace grande campione.

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