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Carspillar – De Tomaso Pantera: esotica da Motor Valley

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Modena, 1969. Due uomini incrociano i loro destini con quelli delle aziende che rappresentano. Uno è il presidente della Ford Division ed ha una missione: rilanciare la divisione Lincoln-Mercury con una vettura che ne rinnovi l’immagine. L’altro è un imprenditore argentino che ha dato vita ad una piccola casa di auto sportive in quella terra dei motori dove era approdato nel decennio precedente come pilota. Sa che è giunto il momento di dare un futuro al marchio che porta il suo nome facendo crescere la sua azienda. I due personaggi in questione hanno in apparenza obiettivi diversi, ma in realtà individuano una strada comune per raggiungerli. Come? Dando vita ad una gran turismo che unisca il fascino dell’artigianalità italiana alla potenza industriale e commerciale di un colosso americano. I loro nomi sono Lee Iacocca ed Alejandro De Tomaso e sono i padri di un mito chiamato Pantera.

Muscoli da “yankee”

L’idea di base era molto semplice: costruire una “exotic car” (così venivano chiamate oltreoceano le sportive di rara diffusione) ad un costo molto inferiore rispetto alle rivali. Il risultato era possibile sfruttando le linee produttive di proprietà della casa di Detroit con l’utilizzo di componentistica robusta e facilmente reperibile. Questo spiega in primis la scelta del propulsore: il V8 Ford Cleveland 351 da 5763 cc. Un “cuore” tipicamente americano che con l’alimentazione fornita da un voluminoso carburatore Holley quadricorpo era capace di sviluppare 330 cavalli a 6000 giri/min ed una coppia massima pari a 451 Nm a 4000 giri/min. Anche per quanto riguarda la trasmissione la scelta fu improntata su affidabilità ed economia. Venne infatti installato un cambio ZF a cinque rapporti sincronizzati accoppiato ad un differenziale autobloccante sulle ruote motrici posteriori. Ad una meccanica così semplice, quasi ruvida, faceva da contraltare un telaio di scuola tipicamente italiana.

Una monoscocca nata a Modena

L’ufficio tecnico della De Tomaso era guidato dall’ormai celebre Giampaolo Dallara, il nome più ricorrente nella storia delle supercar “made in Motor Valley. A questo gruppo di lavoro venne delegata la progettazione del telaio della Pantera con poche semplici direttive: economicità e facilità di lavorazione tali da garantire prezzo competitivo e ritmi di produzione fino a 2500 vetture l’anno. Il raffinato ma costoso telaio a trave centrale della De Tomaso Mangusta venne quindi sostituito da una più semplice monoscocca in cui alle spalle dell’abitacolo veniva installato, in posizione posteriore centrale ed orientato longitudinalmente, il V8 Ford con accoppiato il gruppo cambio-differenziale. A completare la scheda tecnica erano previste sospensioni a triangoli sovrapposti sia all’avantreno che al retrotreno, freni a disco autoventilati sulle quattro ruote e cerchi da 15” con pneumatici di misura 285 / 40 all’anteriore e 345 / 35 al posteriore. Una sportiva basata sulla semplicità, che assicurava un montaggio semplice ed economico senza rinunciare a contenuti tecnici molto graditi alla clientela.

Una linea personale

Una vettura esotica già nel nome richiedeva un adeguato “vestito”. Ad occuparsene fu Tom Tjaarda, responsabile della progettazione presso la Ghia di Torino, anch’essa sotto il controllo Ford. Lo stilista americano di origini olandesi disegnò una carrozzeria semplice ma aggressiva. L’affilato anteriore e la coda bruscamente troncata erano collegati da linee tese e spigoli vivi, ingentiliti dalle uniche curvature accennate intorno ai passaruota. Grazie a questi accorgimenti estetici la Pantera aveva l’aspetto di un cuneo pronto a fendere l’aria, dissimulando una lunghezza complessiva di 4,27 metri. L’abitacolo a due posti era sormontato da un padiglione piuttosto basso (l’altezza era di 110 centimetri) che poneva gli occupanti, avvolti da sedili sportivi, in una posizione semi sdraiata. La vetratura era costituita da un generoso parabrezza dall’ampia curvatura contrapposto ad un piccolo lunotto quasi perpendicolare al piatto cofano motore. I cristalli laterali erano invece a tre luci con finestrini scorrevoli all’interno delle portiere, incernierate anteriormente: pochi fronzoli e tanta sostanza. Le scocche erano realizzate nello stabilimento Vignale di Grugliasco (anch’esso ovviamente di proprietà Ford) dove venivano verniciate ed allestite per essere poi inviate a Modena presso la De Tomaso per completare il processo produttivo.

I numeri di un successo

Con un peso complessivo di 1405 chilogrammi (non come annunciato di 1330) la Pantera era capace di raggiungere la velocità massima di 260 km/h. Un dato di tutto rispetto che, unito ad uno stile di grande impatto emotivo ed al prezzo più che concorrenziale (9000 dollari contro i 25000 di Lamborghini Miura e Maserati Merak) rese la biposto De Tomaso un desiderio possibile per tanti. La vettura entrò in commercio già negli ultimi mesi del 1971, ma solo all’inizio dell’anno successivo la connessione tra la produzione in Italia e la rete commerciale Ford entrò a pieno regime. A quel punto ben 287 Pantera sbarcarono in soli quattro mesi negli States, naturalmente il primo mercato per le sportive. Fu l’inizio di un successo che non si arrestò nemmeno quando, solo due anni dopo, la Ford si ritirò dall’accordo. Alejandro De Tomaso si fece così carico di tutto l’enorme impegno produttivo riorganizzando il suo stabilimento. I ritmi rallentarono fino a ridursi ad un paio di esemplari alla settimana, ma la Pantera sopravvisse venendo sviluppata in versioni successive fino al 1993, quando la produzione si attestò su 7258 esemplari complessivi. Finì così la storia del felino dal cuore americano nato nella Motor Valley, ma non si arrestò certo la sua leggenda.

Il celebre presentatore americano Jay Leno presenta la Pantera di sua proprietà (Jay Leno’s Garage su You Tube)

 

 

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