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Carspillar – De Tomaso Mangusta, in lotta col Cobra
Nata da una delusione
A metà degli anni Sessanta per la piccola De Tomaso Automobili era giunto il momento della svolta dopo la costruzione di qualche auto da corsa ed alcune decine di Vallelunga coupè. La chiave sembrava essere la P70, una sport realizzata presso la Carrozzeria Ghia su disegno di Pete Brock. Quest’ultimo era progettista del team di Carrol Shelby, vero obiettivo di Alejandro De Tomaso. La P70 sembrava fatta apposta per sostituire le datate Lang Cooper della Shelby American, ma nel 1965 la squadra si dedicò interamente al progetto Ford GT40. De Tomaso decise allora di dare vita ad una nuova sportiva per lottare contro le Cobra. Il nome non poteva che essere quello dell’unico mammifero capace di vedersela contro quella serpe: la Mangusta.
La trave negli occhi
Il progetto prese forma intorno al noto telaio della P70/Sport 5000, a sua volta derivato da quello della Vallelunga. Si trattava di un monotrave in lega di alluminio sul quale era installato il motore in posizione posteriore centrale e funzione semiportante. La soluzione derivava dalle esperienze acquisite con le monoposto e si trattava di una vera novità per una gran turismo stradale. La struttura era completata da sospensioni indipendenti sia all’anteriore che al posteriore con doppi bracci oscillanti, ammortizzatori a molle elicoidali e barre antirollio. L’ impianto frenante a circuito sdoppiato era dotato di dischi autoventilanti sulle quattro ruote, cerchi in magnesio Campagnolo 7×15″ all’avantreno e 8×15″ al retrotreno calzati da pneumatici di dimensioni rispettivamente 235/45 R17 e 255/40 R17.
Cuore americano, trasmissione tedesca
Il propulsore, orientato longitudinalmente, era un V8 Ford da 4729 cc alimentato da quattro carburatori. Opportunamente elaborato dalla De Tomaso, forniva una potenza di 308 CV a 6000 giri/min ed una coppia massima di 557 Nm a 3500 giri/min. Il moto era trasferito alle ruote motrici posteriori attraverso un cambio manuale ZF a 5 marce, accoppiato al motore tramite una frizione a tre dischi di piccolo diametro. Quest’ultima era stata scelta per ridurre le dimensioni della campana in modo da poter montare il propulsore in posizione più bassa evitando la costosa soluzione del carter secco. Nonostante l’uso di fusioni in lega di alluminio, il peso del gruppo motopropulsore sarebbe rimasto uno dei limiti della Mangusta. La sportiva modenese distribuiva i suoi 1400 chilogrammi, etto più etto meno, per il 32% all’anteriore e per il 68% al posteriore.
L’ anteriore della Mangusta è dominato dalla vistosa palpebra che copre parzialmente proiettori e calandra (Foto AutoMotorFargio)
Design da urlo
A mettere d’accordo tutti fu lo stile, applauditissimo al Salone di Torino 1966. Ad occuparsene fu la Carrozzeria Ghia, di cui De Tomaso aveva da poco rilevato la maggioranza, ed in particolare il suo disegnatore-capo Giorgetto Giugiaro. «Una grande, luminosa conchiglia schiacciata a terra» così Athos Evangelisti definì la Mangusta per “L’ Europeo”. La nuova De Tomaso appariva profilatissima, con un anteriore largo ed appuntito contrapposto a un ridottissimo sbalzo posteriore ben armonizzato alla linea obliqua del padiglione. Le fiancate, tagliate a metà dalla linea di cintura, erano sportive ed eleganti al tempo stesso, con finestrini di forma trapezoidale e vetri aggiuntivi a valle dei montanti B. Caratteristici erano l’ampio parabrezza e il singolare cofano posteriore a due battenti incernierati su una costola centrale. L’ apertura ad ali di gabbiano permetteva un facile accesso al vano motore, mentre gli ampi cristalli rettangolari lasciavano in vista il propulsore. Tipici anche i doppi fari circolari anteriori e la calandra a sviluppo orizzontale parzialmente coperti dalla vistosa palpebra. Alla raffinatezza degli esterni si contrapponeva il minimalismo degli interni: la Mangusta doveva essere una vettura da corsa trasferita alla strada, senza concessioni al comfort soprattutto per gli occupanti più corpulenti vista la ridottissima altezza del padiglione (solo 1100 mm).
Comunque un successo
La distribuzione dei pesi non ottimale riservò qualche critica della stampa specializzata sul comportamento dinamico, specie in confronto a Ferrari e Lamborghini. Il buon rapporto peso/potenza donava però alla Mangusta una velocità massima di 249 km/h e un’accelerazione da 0 a 100 km/h in 7”1, in linea con le rivali della Motor Valley. I contenuti tecnici da sgrossare erano espressione di una casa ancora giovane, ma l’affascinante design aveva ammaliato diversi VIP che diventarono clienti De Tomaso (pare che anche Muhammad Alì ne possedesse una). La Mangusta con i suoi 401 esemplari prodotti portò la casa da una dimensione artigianale ad una semi-industriale prima dell’arrivo della Pantera. Ne volete una? Preparate un assegno da 300.000 Euro, oppure continuate a sognare…
La Mangusta raccontata da un fortunato collezionista (Shannons Insurance su YouTube)
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