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La gioia di esserci: i festeggiamenti del Marocco

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Ci sono foto in grado di esprime concetti e significati meglio di quanto qualsiasi parola possa fare. Istantanee in grado di diventare manifesto imperituro di ideologie o di momenti storici e questo è possibile sia grazie allo sguardo indagatore del fotografo in grado di cogliere il giusto istante, sia grazie alla potenza intrinseca di certe immagini. Così, ancora oggi, vedendo la foto scattata da Jeff Widener al Rivoltoso Sconosciuto davanti ai carrarmati in piazza Tienanmen o il volto di Che Guevara immortalato da Alberto Korda nel Guerrillero Heroico, tutti sappiamo cosa rappresentano e anche qualora non dovessimo sapere il contesto storico saremmo in grado di intuirlo. Questo avviene anche in ambito sportivo, basti pensare alle iconiche foto di Neil Leifer e John Rooney del match tra Ali e Linston, a quella di Eliott Erwitt dell’incontro tra Ali e Frazier oppure agli scatti che colsero il podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968 con Tommie Smith e John Carlos, afroamericani, scalzi a simboleggiare lo schiavismo e con il pugno guantato di nero sollevato, saluto delle pantere nere, con affianco Peter Norman, australiano e bianco, uno degli eroi dimenticati dalla storia, con le braccia lungo ai fianchi e con una spilla dell’Olympic Project for Human Rights.
Le foto dell’accoglienza del pullman del Marocco a Rabat, a differenza di queste, probabilmente non entreranno nella storia e non verranno ricordate, ma ci pongono di fronte a delle riflessioni necessarie. La festa per i Leoni dell’Atlante è stata enorme e sentitissima durante tutto il Mondiale, ma questa celebrazione dopo il termine della competizione è il culmine di quel processo di riscatto socioculturale che ha segnato la kermesse marocchina. Analizzandola dal punto di vista sportivo, però, è necessario fare anche un’altra considerazione: a essere festeggiato è un quarto posto e questo è avvenuto in maniera non dissimile a quello che è successo in Argentina per la vittoria finale. Un paragone che viene naturale, allora, è quello con le medaglie d’argento tolte dal collo. Quand’è che si è perso il senso della conquista di un traguardo importante, indipendentemente dal risultato finale? Sarebbe ipocrita dire che la vittoria in una competizione non sia uno stimolo e l’obbiettivo e quindi è comprensibile la delusione, che c’è sempre stata, ma negli ultimi anni sembra essersi diffusa una più forte e pericolosa insolenza verso la sconfitta. L’esempio che i più hanno a mente è l’Inghilterra che dopo la sconfitta nella finale degli Europei di calcio contro l’Italia si è tolta la medaglia, ma per portare avanti questa analisi è più utile pensare agli Europei di basket tenutisi questo settembre. La Francia, una delle favorite, ha inaspettatamente perso in finale contro la Spagna che, dopo anni di successi sembrava essere arrivata a un momento di crisi. Evan Fournier e Rudy Gobert, due dei giocatori transalpini più rappresentativi, hanno deciso di non indossare il premio ricevuto e, dopo le critiche, il primo ha affermato che «quando lavori così duramente per ottenere la medaglia d’oro e ti danno quella d’argento o di bronzo, lo prendi come un insulto. Ovviamente non è così. Ma mettere al collo la medaglia d’argento in quel momento mi avrebbe solo rimandato al fallimento. Per questo non voglio averla tra le mani, voglio davvero liberarmene. […] Ti dicono: “Bravo, hai perso”. Ed è molto difficile da accettare». Le parole di Fournier, che hanno una loro coerenza interna, sono lo specchio di un mondo basato unicamente sulla competizione, sul successo a tutti i costi e, conseguentemente, l’incapacità di accettare le normali frustrazioni della vita. Accettando l’idea che lo sport altro non è se non una manifestazione della società intera, questo è un segnale di allarme sulla condizione in cui viviamo quotidianamente, schiacciati da ritmi frenetici e dalla necessità di fare sempre qualcosa in più per poter restare a galla. Tutti vorremo che nello sport certe scene non si vedessero, che il motto di Ethelbert Talbo, ripreso poi da Pierre de Coubertin, dell’importante è partecipare vigesse in tutte le competizioni, ma per farsi che questo avvenga dobbiamo prima agire sulla realtà circostante e riformare profondamente la nostra educazione e la struttura sociale in cui siamo inseriti. Solo così potremmo tornare a capire che si può gioire profondamente anche per una sconfitta, che anche quella può rappresentare un successo e riscoprire così dei valori che non sono quelli del successo a tutti i costi. Solo così potremmo avere più imprese come quella del Marocco.

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