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Il personaggio della settimana – Angelelli, bolognese da esportazione senza filtri

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Dalla Motor Valley ai trionfi a Daytona, la storia di “Max the Axe”

Il momento di dire basta arriva nella vita di ogni sportivo, la cosa più difficile è scegliere quello giusto. Per Max Angelelli era giunto al penultimo “stint” di guida della 24 ore di Daytona 2017 quando scese per l’ultima volta dalla Cadillac Dpi numero 17 cedendo il volante a Ricky Taylor. Ovvero il compagno che con un sorpasso al limite su Albuquerque a sette minuti dal termine gli avrebbe regalato l’ultima vittoria. Tutti sognano di chiudere con una corona d’alloro intorno al collo nella gara che vale una carriera. Max di certo c’è riuscito. 


Campione in Formula 3

Nato a Bologna a fine 1966, Massimiliano Angelelli è uno dei tanti ragazzi nati nella “Motor Valley” che a fine anni Ottanta si sono gettati nella mischia dei campionati propedeutici nostrani con il sogno di diventare un pilota professionista. Dopo l’esordio a vent’anni scarsi in Formula Alfa Boxer, giusto per farsi le ossa con le monoposto, l’approdo ideale di un giovane era il Campionato Italiano di Formula 3, nel quale Max esordì nel 1989. In quegli anni la terza formula tricolore non era solo uno dei campionati propedeutici più validi al mondo. Era una vera giungla in cui ad ogni appuntamento oltre cinquanta piloti scendevano in pista con la speranza di qualificarsi nella prima metà dello schieramento, evitando di finire nell’inferno delle gare di ripescaggio. Ovvero lotte all’ultima ruotata dedicate agli esclusi che si giocavano le ultime due file dello schieramento nella gara della domenica, quella che assegnava i punti veri. Erano gli anni delle sponsorizzazioni facili e delle fatturazioni disinvolte, ma anche delle squadre sempre più professionali e di piloti di grande avvenire. A giocarsi le gare erano Morbidelli, Schiattarella, Zanardi, Badoer, Colciago, Montermini ed un canadese di nome Jacques ed con un cognome pesante come Villeneuve. In un contesto del genere Angelelli con il team Venturini fu la sorpresa del 1990 e riuscì a laurearsi campione due anni dopo con la Dallara-Opel della RC Motorsport.

Angelelli con la Dallara del Team Venturini alla Variante Alta di Imola: è il 1990 (Copyright Massimo Campi)

Dalla Safety alle GT

Come per tanti talenti di casa nostra, dopo la vittoria nella Formula 3 nazionale anche per Max giunse il momento di fare l’emigrante da corsa. L’approdo fu la Germania e la categoria fu ancora la terza formula, un altro torneo da gente tosta. In un campionato che gli anni precedenti aveva visto vincitori come Wendlinger, Kristensen, Lamy ed un “certo” Michael Schumacher, Angelelli giunse secondo al primo tentativo dietro a Jos Verstappen. Mentre l’olandese avrebbe debuttato in Formula 1 l’anno successivo con la Benetton, per il bolognese le porte della massima formula si aprirono solo per guidare la Safety Car in occasione del Gran Premio di San Marino del 1994, passando così suo malgrado alla storia dell’automobilismo. La sua carriera da pilota proseguì con altre due stagioni in Formula 3 tedesca con un terzo posto nel 1995 alle spalle di Norberto Fontana e Ralf Schumacher, prima di cogliere il secondo posto nella prova internazionale di Macao l’anno successivo. Le opportunità per salire di categoria mancavano ed il mondo delle monoposto era diventato ormai irraggiungibile per Angelelli, che per restare un professionista del volante passò al mondo delle Gran Turismo.

Tra Cavallini e Cavalline

La galassia delle gare riservate alle supercar di fine anni Novanta era molto lontana dalla situazione di oggi. A fronte dei grandi investimenti attuali di case come Lamborghini, Ferrari, Mercedes ed Audi che offrono programmi di alto livello a giovani piloti e professionisti affermati, i campionati GT di un quarto di secolo fa sembravano essere un grande parco giochi per ricchi gentleman driver o un buon rifugio per professionisti usciti dal mondo delle formule ma ancora vogliosi di stringere un volante tra le mani. Ciò che restava era il fascino delle vetture che squadre private preparavano con passione accarezzando il sogno di giungere alla regina delle gare, la 24 ore di Le Mans. Capolavori dell’auto come Ferrari F40 o McLaren F1 GTR erano sempre desiderabili per ogni pilota ed Angelelli non si fece sfuggire l’occasione di correre insieme ad Oloffson e Della Noce con la supercar di Maranello messa in pista dal team Ennea. Fu l’inizio di una nuova carriera a cui fecero seguito due anni nel Fia GT in cui il bolognese si divise tra l’abitacolo della Lotus Elise GT1 e quello della poderosa Porsche 911 GT1 dei team Konrad e Zakspeed, senza rifiutare qualche puntata nel campionato giapponese con le Toyota per le locali Bandoh e SARD. I risultati non furono memorabili ed i successi degli anni in monoposto diventavano ricordi sempre più sbiaditi. Le qualità di Max però erano rimaste intatte insieme alla sua determinazione e nel 1999 arrivo per lui un’opportunità inattesa: la possibilità di correre nell’American Le Mans Series al volante della Ferrari 333 Sp della Doyle-Risi Racing. Il biglietto da visita di Angelelli fu di quelli indimenticabili: un secondo posto all’esordio alla 24 ore di Daytona con McNish, De Radigues e Taylor a cui fece seguito meno di due mesi dopo una sesta posizione nell’altra grande endurance americana, la 12 ore di Sebring. Alla partecipazione nel campionato americano si sommò anche l’esordio alla 24 ore di Le Mans, alla quale Max prese parte in uno degli equipaggi ufficiali del team Panoz al volante della LMP-1 Roadster S, singolare prototipo a motore anteriore. Il dado era tratto: l’habitat naturale di Angelelli era il mondo dell’endurance ed in vista del 2000 giunse finalmente l’attenzione di una grande casa.

La Ferrari F40 di Angelelli-Oloffson-Della Noce (mediastorehouse.com)

Trovare l’America su una Cadillac

A fine secolo la Cadillac aveva deciso di costruire un suo prototipo per dare l’assalto alle grandi classiche endurance a stelle e strisce, Daytona e Sebring, ma soprattutto alla 24 ore di Le Mans, capace di cambiare la storia di un marchio che riesce a farla sua. A Detroit si fecero le corse in grande mettendo in pista la Northstar LMP per un programma su base triennale e creando una formazione di piloti di tutto rispetto. Uno dei prescelti fu proprio Max Angelelli che ritrovò in equipaggio un compagno che aveva già conosciuto sulla Ferrari del team Doran: Wayne Taylor. A livello sportivo furono tre anni avari di soddisfazioni. Lo spigoloso prototipo sceso in pista ad inizio millennio venne evoluto in modo sostanziale nelle due annate successive, ma lo scontro con l’armata Audi Sport rimase tale solo sulla carta: le biposto americane venivano battute anche da vetture private. A fine 2002 il programma venne chiuso definitivamente e la carriera di Angelelli sembrava ad un punto morto, ma l’esperienza Cadillac gli aveva lasciato un preziosissimo rapporto: quello con Taylor. L’esperto pilota sudafricano trapiantato negli “States” aveva stretto con il bolognese un’amicizia profonda che andava ben al di là della semplice condivisione di un abitacolo. E le soddisfazioni più grandi per Max dovevano ancora arrivare.

 

In love with Daytona

Il mondo delle gare in salsa “USA” è da sempre caratterizzato da grandi scissioni tra organizzatori e ciò avvenne anche nel mondo endurance dei primi anni 2000. Accanto all’American Le Mans Series, ovviamente legata agli organizzatori della maratona francese, nacque la Grand Am, campionato a base “yankee” della potentissima famiglia France. A dispetto del cognome “francofono”, questi ultimi sono la più grande dinastia di organizzatori americani proprietari del Daytona Speedway. I France decisero di creare un campionato intorno alla 24 ore della Florida con una categoria ad essa dedicata: i Daytona Prototypes. Sgraziati ma economici, i nuovi prototipi attirarono in breve l’interesse di squadre private intenzionate a  competere sul prestigioso palcoscenico del triovale a due passi dall’Oceano Atlantico. Tra essi nel 2004 arrivo il SunTrust Racing, ovvero il team messo in piedi da Taylor per scendere in pista con una Riley Mk XI sulla quale, accanto a sé, volle l’amico Max. I successi per la neonata squadra non tardarono ad arrivare e nel 2005 giunse la vittoria alla 24 ore di Daytona per la coppia Taylor-Angelelli, coadiuvati dal francese Emmanuel Collard. Fu solo l’antipasto all’affermazione in campionato a cui fecero seguito annate di lotte memorabili su tutte le piste nordamericane contro team storici come Ganassi e Brumos. Angelellli divenne una sorta di “Zanardi a ruote coperte” trasformandosi da Massimiliano a “Max the Axe”. Era un vero boscaiolo per il verace pubblico dell’endurance americana, un pilota capace di rimontare sugli avversari a colpi di secondi al giro decisi come quelli dell’accetta di un tagliaboschi, fino ad “abbatterli” con il colpo migliore: un sorpasso duro e senza repliche. Negli anni sarebbero cambiati anche i regolamenti con l’arrivo dei nuovi Daytona Prototypes ed il passaggio del team di Taylor ai telai Dallara, entrata nel 2008 nel mercato della Grand Am. A non cambiare sarebbero stati i risultati: la prima affermazione per il costruttore di Varano de’Melegari a Sonoma avrebbe portato la firma di Angelelli in un trionfo tutto “made in Motor Valley”. Nel 2013 sarebbe giunta anche la vittoria finale in campionato, la seconda per Max, di nuovo in coppia con un Taylor. Questa volta però si sarebbe trattato di Jordan. Wayne infatti aveva deciso di appendere il casco al chiodo limitandosi alla gestione del team, affidando il figlio alle “cure” dell’amico italiano come compagno di equipaggio.

 

Una nuova vita

“Professor Axe”, così Jordan e Ricky Taylor chiamavano Max Angelelli quando ancora bambini ascoltavano le sue lezioni sulla “downforce” e sui sorpassi. «Oggi ho messo in pratica le sue lezioni. E’ stata una mossa alla Axe» disse Ricky dopo la vittoria di Daytona, mostrando il rapporto quasi familiare che il pilota bolognese aveva creato in squadra. Dopo dieci anni da socio-pilota nel Wayne Taylor Racing era giunto il momento di dedicarsi alla sola parte gestionale. Negli anni il talento dietro la scrivania si era mostrato pari a quello al volante: Angelelli era infatti responsabile della parte organizzativa della squadra e dei rapporti con Dallara e Cadillac. Nel frattempo aveva anche assicurato al team dell’amico Wayne l’allargamento dell’attività con la partecipazione al Lamborghini SuperTrofeo NorthAmerica. Smessi i panni del pilota le mansioni di Max sono aumentate di pari passo alla sua partecipazione azionaria nella squadra. Ma gli impegni iniziavano a pesargli, così come il tempo rubato alla moglie Manuela ed ai figli. Dopo un problema di salute nel 2020 è maturata la decisione del secondo ritiro: quello dalla proprietà del team. Lo scorso agosto “the Axe” ha deciso di cedere all’amico Taylor il 49% delle quote che gli apparteneva per rinunciare ad ogni ruolo attivo a fine stagione. Con un colpo da “boscaiolo” ha chiuso un’altra carriera di successo per tornare ad essere Massimiliano. Semplice, come solo i grandi sanno essere.

 

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