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Ayrton 60, giovane sempre
In fondo resta sempre giovane.
Lo sarebbe oggi, 21 marzo, perché avrebbe compiuto 60 anni, un’età in cui non sei più un ragazzino ma di cose da fare ne hai ancora una cifra. Lo è rimasto il primo maggio 1994, quando a 34 anni la sua vita terrena si è conclusa, dolorosamente, precocemente, e si è passati al mito. Ayrton Senna da Silva (“chiamatemi solo Ayrton Senna”, dovette dire agli esordi nel mondo dei motori quando non lo conosceva ancora nessuno) veniva al mondo il 21 marzo 1960 e oggi avrebbe spento le candeline su un’età rotonda. Amo lo sport, ne ho ultimamente spostato i confini dal solo calcio, e Ayrton è “lo” sportivo per eccellenza, nel mio cuore, nella mia testa, nelle mie vene. É quanto mai stato l’esempio di come nella vita bisogna prendersi a sgomitate per avanzare, per sedersi sulla poltrona di dominatore, sia un 8 in pagella o una bandiera a scacchi laggiù in fondo. Era troppo triste senza corse: la famiglia, padre Milton e madre Neide, di origine italiana quest’ultima, gli chiedevano di tornare in Brasile a dare una mano all’azienda di famiglia dopo le corse in Inghilterra, Formula Ford, capitolo successivo dei kart che aggrediva, sezionava, migliorava su quel piccolo circuito adiacente alla pista dei grandi, Interlagos. Lui obbedì, ma non era felice. “Non ho mai pensato ad altro che a fare il pilota, non saprei veramente cosa potrei essere all’infuori di questo”. E allora via, di nuovo sulle monoposto, con buona pace di chi lo ha messo al mondo. L’esordio alla Toleman, tanto entusiasmo ma pochi mezzi, con quell’acuto a Montecarlo, anno 1984, fermato solo dalla pioggia mentre era in rimonta su Prost.
Già, Alain. Una rivalità spigolosa, autentica, feroce, ma di quelle che sai che prima o poi finirà con una pacca sulla spalla. Fratelli-coltelli alla McLaren, dentro una scuderia che era la più forte e che schierava i più forti, anche se il francese mica aveva capito che questo qua a fare la seconda guida non era proprio dell’idea. La prima vittoria con la Lotus, 1985, Portogallo, con annessa pole-position e giro veloce, sotto l’acqua. Quella capacità di danzare sotto la pioggia, frutto di quando quel kart lo tirava fuori soprattutto quando pioveva, perché in quelle condizioni proprio non gli riusciva niente e allora bisognava imparare a governare tutto, anche sul bagnato. Se ne tornava ogni sera inzuppato, ma a qualcosa era valso: 24 Gran Premi bagnati, 14 vinti. È per via di quei giorni di fatica che abbiamo visto Donington ’93, Gran Premio d’Europa, forse la sua ultima e forse più grande recita, quando parte indietro e in un giro, il primo, ne sorpassa cinque in un colpo solo, Prost compreso, salutando tutti e andando a stravincere. E pace alla fine, col suo rivale, fu davvero: Australia, stesso anno, l’ultimo di Alain in Formula Uno. Lui vince il Mondiale, Ayrton la corsa.
E il brasiliano di San Paolo issa il francese di Lorette sul gradino più alto, dopo le sportellate a Suzuka ’89 e la vendetta consumata, con ben poco orgoglio, l’anno successivo sullo stesso asfalto. Nel ’94 si prende il suo sedile alla Williams, punta al quarto Mondiale e poi al quinto per raggiungere Fangio, ma la festa è finita. Niente più miracoli dell’elettronica e facilità di guida: la monoposto è ingovernabile e pasticciata, e sarà la sua tomba a Imola, mentre vedendo morire Ratzenberger e visitando in ospedale il suo amico ferito, Barrichello, il medico di pista Sid Watkins, che poche ore dopo lo soccorrerà invano, gli suggerisce di chiuderla qui e darsi alla pesca. Ayrton dice no.
Senna attaccato alla famiglia, al Brasile, all’aeromodellismo, un’altra delle sue passioni, in cui metteva tutto, ma proprio tutto.
Qualsiasi cosa era fatta con scrupolo, con serietà, con meticolosità, con amore, ma soprattutto con emozione. Anche la preparazione fisica, ancor più necessaria per guidare le monoposto di allora. Gli amori un po’ così, quel matrimonio precoce, troppo precoce, con Lilliane in Inghilterra, poi le relazioni con Carol Alt e Adriane Galisteu, la donna che probabilmente gli sarebbe sempre rimasta accanto per un bel po’. Cuore, lacrime, Dio visto sul traguardo dei Gran Premi o in fondo a una curva, perché, religiosi o no, Ayrton era così, con quella spasmodica determinazione che può far arrivare dovunque, chiunque. E quella vittoria davanti al suo popolo, Interlagos 1991, accanto a quella piccola pista dove studiava da grande, con gli ultimi sette giri fatti in sesta marcia perché il cambio si era rotto e un dolore fisico portato allo stremo, così forte da non riuscire quasi nemmeno a sollevare la coppa del primo classificato. La fotografia della sua vita, del suo tutto.
“Correre per me è un modo di ‘espressare’ le mie emozioni”, disse.
Oggi, Ayrton, se ci permetti, espressiamo le nostre. Lo facciamo da quasi ventisei anni e, accidenti, non avremmo voluto. Chissà che bagarre, lassù, con Lauda e Villeneuve. Feliz cumpleaño, Ayrton. Noi, quaggiù, siamo un po’ meno felici.
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