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Fa buon viaggio, Rebecca!

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Non è mai facile scrivere qualcosa di sensato in casi del genere. No. Non lo è soprattutto quando queste tragedie colpiscono dritto al centro del “tuo” mondo e quelle che consideravi certezze si sgretolano di colpo. In un attimo, tutto quello che hai sempre chiamato “casa” diventa un posto completamente sconosciuto; alieno. Ecco, ieri mi sono sentito più o meno così: un perfetto estraneo nel contesto che considero più famigliare. Insomma, proprio lì dove fa più male. Come se mi avessero letteralmente sbattuto fuori dal portone, in mezzo al nulla cosmico, mentre sulla strada della povera Rebecca si parava davanti un cerbero senza pietà.

Sinceramente, morire a 18 anni durante una partita di rugby è una di quelle cose che fino ad ora non avevo mai valutato lucidamente. Già, il “mio” (nostro!) caro rugby. Quello sport  “strano” dove s’insegue una palla ovale. Dove ci si “mena” per 80 minuti per poi bersi litri di birra tutti assieme al Terzo Tempo. Dove le regole sono più articolate di un libro di diritto costituzionale e dove impari il rispetto, sia esso per il compagno, l’avversario o l’arbitro sin dal primo momento in cui ti allacci gli scarpini.

Si dice che sia una partita a scacchi giocata in movimento. Una battaglia campale con fanti, generali e corpi speciali : ed è proprio così. Per Oscar Wilde invece, era solo “una buona scusa per tenere lontani trenta energumeni dal centro città”, ma in tutta sincerità la mia definizione preferita resta quella di Serge Blanco: “il rugby è come l’amore. Devi dare prima di prendere. Devi pensare al piacere dell’altro prima del tuo”.

Ecco, con questo pensiero voglio credere che Rebecca abbia “passato la palla” (no, nel rugby non si muore!), facendo esattamente quello che amava e che il suo viaggio nell’aldilà possa ripartire proprio da una rettangolo verde con due aree di meta da dover raggiungere!

 

 

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