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Carspillar – Ferrari 312 PB: l’ultima regina

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Obiettivo mondiale

Ci sono le grandi automobili e le grandi automobili da corsa. E poi ce ne sono alcune che sono molto di più: leggende su ruote che irrompono sulla scena per trasformarsi in creature rombanti capaci di bucare le epoche e catapultarsi in una dimensione sospesa tra la realtà ed il mito. Una di queste nacque nel 1971, quando i regolamenti previsti per il Mondiale Sportprototipi sancivano la fine delle grandi vetture sport con motori da cinque litri per ritornare dall’anno successivo ai prototipi con propulsori da 3000 cc. Una scelta controversa, che provocò l’abbandono da parte di Porsche ma anche l’apertura a case come Alfa Romeo e Matra Simca. Anche a Maranello il nuovo regolamento venne visto come un’opportunità, scegliendo di cedere alle squadre private la promettente 512 M per sviluppare un’idea: sfruttare tecnologie ed esperienze maturate in Formula 1 nella realizzazione di un prototipo. Magari utilizzando elementi comuni e risparmiando un po’, che non guasta mai. Su queste basi nacque una regina di nome Ferrari 312 PB.

Dodici cilindri da F1

Cuore del progetto fu il propulsore, come da tradizione del Cavallino. Si trattava del Ferrari Tipo 001, il 12 cilindri concepito da Mauro Forghieri per la monoposto 312 B. Si trattava di un motore con V tra le bancate di 180°, quindi piatto, da 2991,80 cc che si stava rivelando il più potente della Formula 1 dopo aver risolto gli iniziali problemi di lubrificazione. L’architettura aiutava anche l’intera progettazione: grazie alla compattezza questo “cuore” si rivelava validissimo nella distribuzione complessiva dei pesi con il suo baricentro ribassato. Caratterizzato dalla distribuzione bialbero in testa con quattro valvole per cilindro e raffreddato ad acqua, era alimentato da un sistema ad iniezione indiretta Lucas. La lubrificazione a carter secco e l’accensione singola elettronica Dinoplex della Magneti Marelli ne completavano la scheda tecnica. Visto l’impegno più gravoso rispetto a quello dei gran premi, il motore venne depotenziato su indicazioni del tecnico Franco Rocchi fornendo comunque 450 CV a 11000 giri/min, con un rapporto di compressione di 11,5:1.

Il bilanciamento è tutto

La filosofia progettuale riprendeva i concetti sviluppati con la 212E dominatrice due anni prima dell’Europeo Montagna: bilanciamento e contenimento dei pesi in una vettura più compatta possibile. Venne così realizzato un telaio semimonoscocca con un traliccio di tubi a cui venivano rivettati pannelli di rinforzo in alluminio. Un sistema costruttivo che riprendeva quanto sperimentato sulla 312 B di Formula 1 e permetteva un interessante alloggiamento dei serbatoi: il principale (da 80 litri) si trovava a sinistra del pilota, un secondo di capacità dimezzata era installato sulla destra ed altri due da 10 litri trovavano posto sotto al sedile. I vantaggi nella distribuzione dei pesi apparivano evidenti. Sempre per favorire il corretto bilanciamento, i radiatori dell’acqua erano posizionati ai lati del motore. Le sospensioni riprendevano l’efficace concetto dei quadrilateri deformabili anch’esso sviluppato sulla monoposto con un sistema a ruote indipendenti, parallelogrammi trasversali, molle elicoidali ed ammortizzatori telescopici. Non solo il propulsore, ma anche la trasmissione era trasferita direttamente dalla massima formula. Il cambio a cinque marce più retro era accoppiato posteriormente al motore attraverso una frizione multidisco. Lo sterzo era a cremagliera ed i freni a disco sulle quattro ruote, con pneumatici di dimensioni 8,6-20-13 all’anteriore e 13,5-24-15 al posteriore.

Piccola e compatta

La carrozzeria era quella di una barchetta biposto aperta dalle linee semplicissime: un cuneo arrotondato sull’anteriore con la coda alta e tronca costituita dal solo cofano motore che copriva l’intera meccanica. Su di esso vennero applicate prima delle semplici pinne stabilizzatrici e successivamente un’ ala a tutta larghezza sostenuta da supporti laterali. Del disegno si occupò l’ingegner Giacomo Caliri, mentre la realizzazione fu ad opera della “Cigala & Bertinetti” di Torino che utilizzò poliestere rinforzato con vetroresina. La 312 PB aveva forme compatte: lunga 3500 mm, alta solo 956 e larga 1880, vantava un passo di 2200 che assicurava maneggevolezza e stabilità. Con attenzione alla tecnica costruttiva ed ai materiali utilizzati fu possibile contenere il peso complessivo in soli 585 chilogrammi, che garantivano una velocità massima di 320 km/h e doti dinamiche che la resero immediatamente amatissima dai piloti.

Una predestinata

Nata come 312 P (la B venne aggiunta successivamente per differenziarla dall’omonimo prototipo del 1969), la barchetta “made in Motor Valley” si mostrò velocissima già all’esordio, terminato con il fatale incidente di Giunti a Buenos Aires. Sfruttato l’intero 1971 per svolgere collaudi in gara (la vittoria giunse solo nella 9 ore di Kyalami a fine anno), il 1972 divenne un anno di dominio assoluto per la Scuderia. Con una squadra composta da campioni tra cui Jacky Ickx, Mario Andretti, Clay Regazzoni e Ronnie Peterson, la Ferrari vinse tutte le gare alle quali partecipò compresa la Targa Florio grazie a due sublimi stradisti come Arturo Merzario e Sandro Munari. La Ferrari si assicurò anche la matematica conquista del tredicesimo titolo nel Mondiale Sportprototipi. Unica eccezione fu la 24 ore di Le Mans, alla quale la squadra non partecipò lasciando la vittoria alla Matra Simca. Ovvero il costruttore che l’anno successivo mise fine alla striscia vincente della 312 PB, che trionfò solo a Monza e conquistò un leggendario secondo posto a Le Mans. Nonostante fosse pronta un’evoluzione in chiave 1974 la carriera sportiva della reginetta dei prototipi si chiuse alla fine del 1973, quando la Ferrari lasciò il mondo dell’Endurance per cinque lunghissimi decenni. Entrando per sempre nella leggenda delle corse.

Un breve estratto della diretta televisiva della 1000 km di Monza 1972 dominata dalle 312 PB (adriano favetta su YouTube)

 

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