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Festival Gazzetta dello Sport a Trento: il sabato con Mike Powell e gli staffettisti azzurri

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Lo scorso fine settimana la città di Trento si è fatta capitale italiana dello sport grazie alla quattro giorni del Festival dello Sport organizzato dalla Gazzetta dello Sport dal 12 al 15 ottobre. Alle 15:30 di sabato, nella suggestiva cornice della Sala Depero, all’interno del Palazzo della Provincia Autonoma di Trento, è salito sul palco l’uomo che ha saltato più in lungo di sempre: Mike Powell. Alle 17:30 invece, nel vicino Palazzo della Regione è stato il turno di Roberto Rigali, Lorenzo Patta e Filippo Tortu: i tre quarti d’argento della staffetta agli scorsi mondiali di Budapest.

Mike Powell: un vice che ce l’ha fatta

È il 30 agosto del 1991 e a Tokyo va in scena il terzo campionato mondiale di atletica leggera. Nella pedana del salto in lungo c’è Carl Lewis, “King Carl” come è soprannominato dopo aver vinto due edizioni olimpiche di fila. Il Re è in forma smagliante. Solo cinque giorni prima si è laureato campione mondiale sui 100 metri con il nuovo record del mondo di 9″86. Ma, vicino a Lewis, in quella pedana giapponese c’è anche Mike Powell, un talentuoso americano che finora non è riuscito a vincere mai a causa dello scomodo connazionale. A Tokyo ce la fa; salta 8,95 metri cancellando in un soffio quel record di Bob Beamon che resisteva fin dal 1968, record che proprio Carl Lewis si pensava cancellasse. “King Carl” fa comunque una gara sensazionale con il suo 8,91, seppur invalidato da una bava di vento a favore che non gli consente l’omologazione (8,87 la misura regolare). Il titolo mondiale e il nuovo record se lo prende l’ex vice della disciplina: quel Mike Powell seduto a soli pochi metri da me nel centro di Trento. 
Powell racconta dei suoi inizi come cestista (dopotutto chi è del mestiere sa come il Basket sia strettamente collegato al salto in alto e in lungo proprio per la stessa propensione allo stacco verticale), del suo passaggio al salto in alto e del suo approdo al salto in lungo, disciplina dove conquista, alle Olimpiadi di Seoul del 1988, la medaglia di argento proprio dietro Carl Lewis.
Ad un passo dal compiere 60 anni, Mike Powell ricorda con estrema chiarezza le sensazioni prima, durante e dopo quella gara notturna a Tokyo. Emblematica la sua risposta alla domanda posta dal giornalista su come vedesse Carl Lewis prima di sconfiggerlo: con una risata e molta ironia Powell afferma «lo odiavo, era il mio nemico» (in pedana ovviamente). Prima di partire con la sua rincorsa verso la leggenda, Powell visualizza l’azione tecnica come un insieme di fasi animali: «In partenza dovevo essere un toro, che spinge con potenza. Poi dovevo correre come un cavallo, veloce e potente, infine spiccare il volo per chiudere meglio possibile, cosa che non ho fatto. Poteva essere oltre i 9 metri».
 
Verso la fine dell’incontro ecco che sale sul palco il futuro del salto in lungo italiano: il diciottenne Mattia Furlani, che pone numerose domande a Powell proprio come uno studente delle superiori davanti ad un professore importante. 
Alla fine è poi emersa una questione interessante dal punto di vista dei risultati di questi anni: viene chiesto al primatista mondiale come mai, da una quindicina di anni a questa parte, nel salto in lungo non c’è quel numero di atleti capaci di saltare sopra gli 8,60 che c’era, ad esempio, negli anni 90. Per Mike Powell, che ben conosce gli sviluppi dell’atletica internazionale, la differenza è uno spostamento dell’interesse in maniera quasi univoca verso i 100 metri. Ai suoi tempi, afferma Powell, molti velocisti si mettevano anche in pedana, per provare a saltare gli 8,90 di Beamon, adesso no: i velocisti fanno i velocisti, pressocché integralmente. 

Tre amici d’argento

Quello che è successo nella 4×100 maschile a Budapest agli scorsi mondiali è noto, mentre meno note sono le dinamiche fuori dallo stadio di gara dei componenti della squadra vice campione del Mondo. Roberto Rigali, Lorenzo Patta e Filippo Tortu intrattengono la folta platea di pubblico con racconti a volte di natura spiccatamente tecnica e altre più goliardiche. I tre sono amici, sono stati in vacanza insieme lo scorso settembre. Ecco quindi che emerge la figura di un Tortu che ai raduni fa gli scherzi con Rigali al sardo Patta, il quale, permaloso ed introverso, se la prende. Si scopre che, sempre nelle camere dei raduni, Rigali e Patta quando si svegliano presto lo fanno non prima di mezzogiorno, al contrario di Pippo che è più mattiniero. Comunque, al di là di questi divertenti siparietti una cosa è certa: quei ragazzi, una volta calzate le scarpe chiodate e sui blocchi di partenza diventano tra i più forti al mondo, senza alcun tipo di timore reverenziale nei confronti dei big (è il caso della frazione di Tortu, che a Budapest insegue senza paura un treno chiamato Noah Lyles). 
 
C’è una stagione importante alle porte: gli Europei di Roma a giugno e i Giochi Olimpici a Parigi ad agosto e l’obiettivo del quartetto è quello di presentarsi pronti per quei momenti. 
Nella chiacchierata con i tre arriva poi il momento (che non poteva mancare ed atteso da tutti) dove si parla di Marcel Jacobs, l’unico staffettista di Budapest assente in Trentino. I tre sono concordi nel ritenere che avere Marcel in staffetta sia fonte di tranquillità: «è il campione olimpico dopotutto», sentenzia Lorenzo Patta. Il fatto che Jacobs abbia deciso di cambiare tutto (città, nazione, continente, allenatore) per andarsi ad allenare negli States a pochi mesi dai Giochi è ritenuto dai suoi compagni di squadra una mossa sicuramente coraggiosa, ma non per questo sbagliata; quando si rompe qualcosa nel legame atleta/allenatore l’unica cosa da fare è cambiare, costi quel che costi. Alla fine l’evento si conclude con un simpatico quiz multisport al quale Tortu vince nettamente sui suoi compagni, dimostrando così di essere l’appassionato di sport più completo.
 
Infine un particolare riferimento a Roberto (Bobby) Rigali, il più grande (classe 95), l’unico non professionista in staffetta e non appartenente ai gruppi militari. Tortu ne riconosce la grande caparbietà nel non aver mai mollato dopo 6 anni da riserva, fiducioso che continuando col duro lavoro sarebbe arrivato prima o poi il suo momento nell’atletica dei grandissimi.

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