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Quel ragazzino nel box di Imola
Quanti ragazzi si vedono arrivare in pista in ogni fine settimana dedicato alle categorie propedeutiche. Quanti nomi scritti sui roll bar delle formula, quanti caschi colorati e quante bandiere ho visto passare in tre lustri di servizio in corsia box proprio non lo ricordo. Ricordo però i nomi di molti di loro nelle esperienze in auto sul circuito di Imola prima di giungere ai maggiori campionati mondiali. Tanti si sono fatti conoscere solo dopo l’avventura in terra di Romagna, altri invece sono giunti nella “Motor Valley” preceduti da una certa fama ed attesi con curiosità e, talvolta, con pretese di risultati.
Uno di loro arrivò in riva al Santerno in un caldissimo week-end di fine maggio 2016 nel folto gruppo di ragazzini terribili dell’Italiano Formula 4. Aveva un passaporto tedesco e la licenza da conduttore che testimoniava i suoi diciassette anni e due mesi. Poteva essere uno dei tanti che inseguivano il sogno della Formula 1 ma non lo era e mai avrebbe potuto esserlo anche da esordiente. Perché accanto al suo nome Mick aveva un cognome pesantissimo da portare quando si scende in pista con un volante in mano: Schumacher. Ebbene si, dopo le esperienze in kart prima usando il cognome della madre poi semplicemente come “Mick Junior”, il figlio del “Kaiser” aveva fatto il suo esordio nell’automobilismo. Dopo una prima stagione in patria era arrivato il momento di alzare l’asticella. Arrivava a Imola tra le file dello squadrone Prema con un programma che prevedeva per lui la partecipazione sia al campionato tedesco che a quello tricolore. Non poteva essere uno dei tanti e ammetto anche la personale curiosità nei confronti della persona ancor più che del pilota, sicuramente ancora molto acerbo.
Era però un fine settimana pienissimo di impegni per noi commissari tecnici, le verifiche ante-gara ci avevano impegnato fino a tarda ora il venerdì e le categorie erano tante, non si poteva seguire un nome. Poi, come sempre in pista, accadde l’imprevisto. Al termine delle qualifiche del sabato mattina le prime monoposto della Formula 4 vennero accolte al box delle verifiche per i consueti controlli di peso e dimensioni. Solo una si trattenne di più. Era bianca e rossa con strisce verdi ed aveva un nome sul roll-bar: M. Schumacher. Eccolo il figlio della Leggenda. Appena la vettura venne spinta nel box si provvide a chiudere le saracinesche ostruendo la vista a chi si trovava sulla pit lane e soprattutto nel paddock, dove già diversi giornalisti e fotografi iniziavano ad avvicinarsi fiutando la presenza del pilota che stavano attendendo. Mick sembrava saperlo, forse era già abituato. Rimase nel box al riparo da occhi indiscreti, si tolse il suo casco giallo acido ed il passamontagna e si sedette sulla pancia laterale della monoposto. Fu allora che lo osservai ed incrociai lo sguardo col suo. Davanti a me avevo un ragazzino biondissimo, silenzioso e con gli occhi che ruotavano per tutto il box. Tradiva i suoi diciassette anni con un’espressione dipinta sul volto che oscillava tra la curiosità e la timidezza di chi, senza esperienza, stava mettendo il naso in un ambiente sconosciuto con circospezione ed umiltà. Mi fece tenerezza. Istintivamente pensai ai giornalisti che lo aspettavano fuori, ai fotografi, all’addetta stampa che già lo seguiva ed alla vita completamente diversa da quella più spensierata e giocosa dei suoi compagni di categoria. Non deve essere facile portare il cognome di quello che per tutti è il pilota più vincente della storia della Formula 1 quando per te invece è solo quello di un padre che non può nemmeno darti un consiglio o accompagnarti sulle piste. Non deve essere facile nemmeno fare i conti con le attese di tanti che riversano su di te enormi aspettative solo per un nome, come se le tue affermazioni fossero un modo di tornare indietro nel tempo e saziare le loro nostalgie da tifosi che hanno dimenticato il gusto della vittoria.
Pensavo a tutto questo mentre guardavo quel ragazzino educato e spaurito. Non potevo non confrontare la sua espressione con la feroce determinazione e lo sguardo fulminante di suo padre quando si affacciò nel mondo delle corse, deciso a raggiungere la vittoria come ogni campione di razza, pronto a sbarazzarsi di chiunque si mettesse tra lui ed il successo, anche con una ruotata (per conferme citofonare a casa Hill). Pensavo a tutto questo e lasciai Mick solo con la sua monoposto, prima che la saracinesca si riaprisse per vedere pilota e macchina sparire rapidamente nel paddock. Il resto è storia recente e nota.
Mick è passato in Formula 3 e dopo una stagione al di sotto delle attese per poi laurearsi campione dominando la seconda metà del 2018. Stessa storia in Formula 2 con la vittoria nel 2020 conseguita dopo un 2019 di positivo apprendistato ed in tasca un contratto per esordire nel Mondiale 2021 al volante della Haas, sempre in orbita Maranello. Non ha il curriculum del fenomeno o né aneddoti leggendari a donargli i gradi del predestinato, ma la sua carriera è quella di un ragazzo intelligente, scrupoloso e dotato che con molta applicazione ha meritato una possibilità.
Senza mai raccogliere le polemiche dei battuti che hanno messo dubbi sulle sue vittorie, senza farsi schiacciare dalla pressione di mille domande e dai confronti dei tifosi, ma purtroppo anche senza tanti sorrisi. Lui si chiama Mick non Michael e poco importa se se vincerà sette titoli mondiali o non porterà a casa nemmeno una coppa. Mick per realizzare il suo sogno ha già vinto semplicemente restando sé stesso, un ragazzino educato ed un po’ spaurito che si guardava intorno in un box dell’Enzo e Dino Ferrari, solo ed un po’ triste accanto alla sua formulina. O almeno lo resterà sempre per chi si è ritrovato a condividere con lui quello stesso box.
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