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“Chiacchiere da Bar…bieri” – Lo sportswashing e le nuove frontiere del motorsport
Da sempre, nella storia dei massimi campionati motoristici, si è vista la moda più o meno ciclica dell’inserimento in calendario di nuovi circuiti, spesso in nazioni senza una vera tradizione motoristica. Quali sono i motivi? Opportunità commerciali o un autentico sportswashing, ovvero il tentativo di far parlare di sé per questioni sportive, spostando l’attenzione mediatica lontana dal rispetto dei diritti umani?
Gli albori degli investimenti mediorientali
La tendenza ad andare in luoghi esotici ha sempre lasciato perplessi i fan della prima ora, anche per gli esiti spesso non soddisfacenti di queste novità. Negli ultimi anni sono state tante le nuove nazioni che hanno aperto una finestra sugli sport motoristici ai massimi livelli, dalla China alla Corea del Sud, passando per l’India, alla Russia e a numerosi Stati del Medio Oriente come il Bahrain, il Qatar, Abu Dhabi e, ultima ma non ultima l’Arabia Saudita.
Quest’ultima nazione ha investito negli ultimi anni molto denaro ospitando diverse competizioni sportive: più recentemente, è approdato in quella parte della penisola araba anche l’Olimpo del motorsport, tra Formula E, Dakar e, dal 2021, la Formula 1. L’investimento non si è fermato solo ad un posto nei calendari motoristici, bensì aziende controllate dal governo saudita come Aramco hanno fatto il loro ingresso come sponsor istituzionale proprio del campionato per monoposto più seguito del globo. In realtà è un ritorno da parte di questa porzione di pianeta: già alla fine degli anni ’70 i cosiddetti petroldollari fecero capolino in F1. Nel 1978 infatti, Frank Williams ricevette dall’Arabia Saudita molti fondi per rafforzare la sua omonima scuderia, la seconda da lui fondata dopo la vendita della prima sua creatura all’uomo d’affari canadese Walter Wolf. Diversi erano infatti gli sponsor mediorientali, dalla Fly Saudia, alla Albilad, alla Città di Riyadh. Naturalmente, “Paese che caccia i soldi, usanze che trovi”: nel 1979 Clay Regazzoni non potè celebrare la vittoria a Silverstone, stappando lo champagne. Festeggiamenti quindi in sordina, almeno sul podio, per il primo successo della scuderia Williams.
Clay Regazzoni mentre riconsegna la bottiglia di champagne sul podio del GP d’Inghilterra 1979 (copyright to the owners)
Tendenza in crescita o momento figlio dell’attualità?
L’impressione è quella che questa tendenza sia sempre in crescita; in realtà è più una situazione figlia delle opportunità dell’epoca. Ora sono di più e diverse le aree del mondo che si possono permettere esborsi faraonici per garantire l’accensione dei riflettori (in maniera più o meno figurata, date le gare in notturna che vengono spesso disputate) sul proprio territorio. Perché certi Stati vogliono assicurarsi visibilità ospitando grandi eventi come certe manifestazioni motoristiche? Spesso per dire al mondo: “Ohila!? Ci siamo anche noi, siamo belli, siamo grandi e in via di sviluppo!”. Altre volte, invece, lo fanno semplicemente per pulire la propria immagine pubblica, ed è questo il significato della parola straniera citata nel titolo. L’Arabia Saudita e il Qatar sono un esempio lampante e recente, in nuove imitazioni di ciò che fece il Sud Africa negli anni ’70 e ’80, in pieno periodo apartheid. Dalle notizie che arrivano in Occidente, la situazione in queste nazioni, dal punto di vista di rispetto dei diritti umani è ai minimi termini, ben al di sotto di ciò che consideriamo accettabile. Ospitando grandi manifestazioni però, questi Paesi vengono riconosciuti come investitori e cercano di allontanare da loro le eventuali polemiche sulle proprie gestioni interne.
I lavori in corso sulla spiaggia di Jeddah (source: motorsportweek.com, copyright to the owners)
La questione morale dietro lo sportswashing
L’associazione umanitaria Amnesty International sta cercando da anni di informare l’opinione pubblica e sensibilizzare gli organi sportivi a non prestarsi a questo intento. Spesso si sente dire che andare presso questi Paesi può essere un’occasione utile per accendere i riflettori anche su questi temi. A questo punto vi faccio una domanda: voi invitate a casa vostra delle persone importanti, che ne so, il vostro direttore, per far bella impressione su di lui e cercare di ottenere quell’importante promozione che è in ballo proprio in queste settimane. C’è un problema: avete una camera che trascurate, nella quale si è accumulata umidità ed è diventata inaccessibile. Gli fareste vedere quella stanza?
Cominciate ad avere dei dubbi, è chiaro. Giriamo la frittata, siete voi il direttore. Un vostro collaboratore vi invita a casa vostra per cercare di garantirsi quella promozione per la quale vi state da settimane scervellando per capire chi se la merita di più. Voi sapete per certo che questo collaboratore ha una parte di casa che è inservibile e volete mettere la cosa in evidenza, per trovare un pretesto per non concedere la promozione proprio a lui. Siete davvero sicuri che sia una cosa così semplice?
Ecco, questo è il punto. La politica deve rimanere fuori dallo sport? Non sono d’accordo. E’ arrogante avere la pretesa di far venire fuori la polvere da sotto il tappeto di casa degli altri? Assolutamente sì. L’Occidente non può utilizzare le politiche dei Paesi in via di sviluppo per farne una questione umanitaria, prendendo i soldi da chi li ha per poi andar da loro a fargli la morale. Delle due, la soluzione migliore sarebbe quella di starsi a casa, accontentarsi dei “pochi” soldi che possono dare le economie del Vecchio Mondo e non mettere la propria attenzione mediatica al servizio di chi deve ripulirsi l’immagine.
Il problema è che l’uno ha bisogno dell’altro per espandersi e continuare a prosperare. Riuscirà il mondo occidentale del motorsport a uscire da questo cul-de-sac nel quale si è ritrovato? E cosa faranno personaggi come Lewis Hamilton e Sebastian Vettel, impegnati quotidianamente nelle grandi questioni sociali proprie del nostro tempo?
Una delle tante proteste per i diritti umani di Lewis Hamilton sul podio del GP di Toscana 2020
(source: Youtube-OurengHD, copyright to the owners)
P.S.: Della qualità delle piste ne parleremo più avanti, dopo aver visto la Superbike a Mandalika, in Indonesia, e la Formula 1 in Qatar e a Jeddah, in Arabia Saudita. Promesso.
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