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Carlton Myers, 50 anni a testa alta

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Nel 2001, al Pala Malaguti, durante la gara-3 della finale scudetto tra Virtus e Fortitudo, a un tratto il pubblico virtussino si alza in piedi ad applaudire. Non lo fa all’indirizzo della propria squadra, avanti 2-0 nella serie e 71-64 a tre minuti dalla fine, ma tributa un saluto al numero 10 fortitudino, Carlton Myers, che a Bologna, sponda rossoblu, è stato più di un giocatore. Trentatré punti, 5/11 da tre, 16/17 nei liberi. Sono le ultime cifre di Myers biancoblù, perché in quell’istante, dopo il quinto fallo che lo costringe ad abbandonare la scena, la guardia da 192 cm chiude lì il suo periodo d’oro. 

Oggi Myers compie 50 anni, un bel traguardo, con la testa alta di sempre. Nato a Londra da padre caraibico e madre pesarese, sono proprio Rimini e Pesaro le prime tappe della sua carriera prima dell’approdo in Fortitudo nel 1995. La Effe non ha mai vinto nulla, ha ingoiato tanti rospi e visto la parte bianconera della città sventolare di continuo le sue bandiere. Nel 1998 conduce il club alla vittoria della Coppa Italia, mentre nel 2000 è il condottiero del primo, storico titolo fortitudino. Proprio quell’anno, in marzo, Myers trascende dal campo e si fa paladino di giuste cause: al Pala Dozza, nella partita contro Roma, città protagonista in quei giorni nel calcio di croci celtiche, svastiche e quant’altro esposte all’Olimpico nel calcio, incita il pubblico a mostrare il cartello “Anch’io”. Perchè lui, dal microfono, sfodera la sua tolleranza e dice “Io sono antirazzista”, dando il là alla risposta del pubblico. E andò addirittura oltre: “Fermiamo il calcio per una, due o tre settimane. E sono disposto anche a veder fermato il campionato di basket”.

Myers Re di Bologna, Myers sempre fuori dalle righe ma a modo suo, come nel giorno della rissa in Eurolega, marzo 1998, quando promette a Danilovic di regolare i conti nel tunnel degli spogliatoi. Quell’isterismo costa caro: fuori due giocatori e tutta la panchina, con la Fortitudo ridotta a giocare in tre contro cinque. E poi quella gioia, due anni dopo. E bastano le sue parole a raccontarla: “Ho pregato molto il Signore, ho avuto un momento difficile dopo gara-1, ho voluto vedere mio figlio Joel e vedere il suo sorriso, quello di un bimbo felice. Ora direte che sono un vincente, ma io non lo sono per i trofei: lo sono perché non mi arrendo mai”. 

Un anno prima era arrivato il trionfo europeo con la nazionale a Parigi, nella finalissima con la Spagna, seppur la vera finale fosse stata quella con la Jugoslavia nel turno precedente. Con Myers che gioca da solo, che impera con egoismo e voglia, ma il tecnico Bogdan Tanjevic, che a Sarajevo era cresciuto e ne decantava la multiculturalità, non gradisce e lo striglia davanti ai compagni in un time-out. E’ la svolta. “Lavora, credici, non fare il cretino: così mi aveva detto il coach. Le parole non erano proprio quelle, ma il senso sì. E aveva ragione. Regalerò il pallone di questa finale a mio figlio. Ma avete visto che gruppo siamo? Siamo un’orchestra!”. Con un gran bel direttore. Hai suonato bella musica Carlton, oro di Bologna. Per i fortitudini, sì, ma anche per quel pubblico virtussino che in quel giorno del 2001 ha fatto ben comprendere al mondo chi fosse Carlton Myers.

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