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Christmas Tale – L’altra palla di neve

L’altra palla di neve – Una racconto natalizio della rubrica “Christmas Tale”

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Il mio nome, all’anagrafe è palla. Poi a seconda dell’età, delle dimensioni  e dell’uso posso anche essere chiamata pallina o pallone. Sono tonda, sferica, e nello sport ho cugine più smilze, quelle per il rugby e quella schiacciata dell’hockey su ghiaccio. C’è qualcosa di cui vado fiera, sempre parlando di sport: che con me si gioca. Il gioco del calcio, del basket, del volley, della pallanuoto, del baseball, del tennis, del golf. Non si gioca a sci, a ginnastica, a salto in alto. Sono fiera di questo.

Poi, certo, con una come me si gioca in maniera diversa: pallina, palla, pallone. Prese a calci, a schiaffi, a colpi di mazza o di racchetta, schiacciate in una mischia.

Io sono un palla fortunata, perché con una come me giocano a basket. Il mio mestiere, il mio destino? Palleggi morbidi, passaggi tranquilli da due mani alle altre e poi quella parabola dolce dolce. La schiacciata esalta anche noi, la stoppata fa parte dei rischi del mestiere e non ci fa neppure tanto male.

Faccio magìe. Non è che le faccio fare, anche quello sì, ma alcune di noi hanno il dono di poter compiere cose imprevedibili e magiche, che vanno ben oltre un assist o un gol. Io, per esempio, ho cambiato per sempre la vita di Larry e Joe, per una mezza giornata che non dimenticheranno mai se non crederanno che sia stato tutto un sogno.

Larry era un campione affermato, di basket, considerato uno dei migliori giocatori di tutti i tempi in tutto il mondo. La natura non lo aveva dotato di un corpo particolarmente atletico ma lui era riuscito a fare lo stesso carriera perché dotato di grande intelligenza e spirito di squadra, ma soprattutto perché credeva in una cosa: il lavoro. Lui era quello che finiti gli allenamenti rimaneva in palestra a migliorare i movimenti e il tiro. A volte lo seguiva qualche giovane matricola, altre rimaneva da solo a ripetere magari in maniera lo stesso gesto meccanico: il tiro.

Si faceva aprire la palestra dal custode tutti i giorni, compreso quello di Natale, e quell’anno non avrebbe fatto eccezione.

Joe era un ragazzino smilzo e sveglio, gli piaceva la pallacanestro ma non era proprio dotato e nelle partitelle a scuola o nei playground faceva l’eterna riserva e giocava quando proprio non se ne poteva fare a meno. Suo padre era il custode della palestra dove si allenava la squadra di Larry e dove le regole erano molto rigide per quello che riguardava l’accesso agli estranei, ma dopo l’ennesima richiesta di Joe e, pensando che quel giorno la struttura sarebbe stata deserta, decise che per una volta se lo sarebbe portato dietro. Con l’obbligo starsene zitto in un angolo, lontano per non disturbare il campione.

Larry iniziò a tirare: uno, due, dieci palloni che aveva messo in fila. Uno, due, dieci canestri. Poi si accorse di Joe: «Ehi, tu, vieni un po’ qua». Il ragazzo diventò prima rosso, poi viola dalla vergogna, temendo non tanto per lui quanto che potessero fare delle storie a suo padre per aver violato il regolamento d’accesso. «Ciao, io sono Larry, vuoi darmi una mano?».

Joe pensava di non aver capito bene, ma Larry non perse tempo ad attendere la risposta  e gli spiegò cosa voleva: ogni pallone tirato a canestro doveva essere riportato subito vicino a lui che si spostava  in senso orario rispetto al tabellone.

Dopo cinque minuti Joe aveva già il fiatone, ma gli sembrava di volare e continuò per un bel po’ quell’avanti e indietro.

Quando per l’ennesima volta Larry prese in mano un pallone – e beh, quello ero io – si fermò e disse al ragazzo che quello sarebbe stato l’ultimo tiro della giornata e che, se voleva, si sarebbero potuti rivedere lì la mattina del 26 dicembre, per rifare la stessa cosa. Joe fece di sì con la testa, mentre Larry gli diceva di esprimere un desiderio: «E’ la notte di Natale, penso anch’io a qualcosa di bello e di magico e se faccio canestro vedrai che si avvererà per tutti e due».

So leggere nel pensiero delle persone e sapevo benissimo che cosa fare quando Larry, l’infallibile Larry, avrebbe fatto “ciuff”. E fu così che tutta la classe e l’intelligenza del campionissimo finirono nel corpo di Joe mentre tutta la freschezza mentale, la curiosità, la vivacità del ragazzo di 12 anni andarono a fissarsi dentro alla testa di Larry.

Chi lo frequentò quella notte e il giorno dopo, il giorno di Natale – ricordiamolo – fu sorpreso dal trovarsi una persona diversa da come l’avevano sempre conosciuto, burbero e silenzioso. A partire dai suoi bambini che trascinò di peso giù dal letto per andare a scartare i pacchi regalo sotto l’albero; poi uscì di casa e si tuffò in quelle strade che aveva sempre evitato, mescolandosi alla gente che si dava di gomito quando lo aveva riconosciuto e dopo che la prima coppia “osò” chiedere un selfie, a decine lo strinsero di affetto come non gli era mai capitato nemmeno al termine di una partita vittoriosa. A pranzo, Larry, a casa dei suoi genitori e con tutti i parenti, non parlò una sola volta di basket come sempre capitava o gli veniva richiesto, raccontando buffe storie di quando era bambino e che sembrava di aver dimenticato. Andò a dormire felice, come se quello fosse stato il giorno più bello della sua vita, come aveva desiderato che fosse il giorno prima quando aveva scagliato l’ultimo tiro.

Joe, invece, alla mamma sembrò un po’ troppo serio, quella mattina. Certo, sorrise e rise, quando scoprì i regali, poi però chiese se dopo la messa poteva fermarsi qualche minuto a guardare giocare a pallacanestro nel campetto della parrocchia. La mamma sbuffò, ma era il giorno di Natale…

Joe sapeva che su quel campetto ci giocavano tutti i giorni dell’anno, feste comprese e che anzi a Natale, nel pomeriggio, ci giocavano delle partite vere 5 contro 5, fra squadre di giovani  delle zone vicine ed era un torneo sentito come una finale NBA.

Quella mattina il campetto era però quasi deserto, se non per un quartetto di ragazzi più o meno della sua età. Erano vestiti da festa, come lui, e il pallone chissà come lo avevano portato, probabilmente di nascosto, fuori di casa. Giochicchiavano, fin quando non arrivò un altro ragazzo e allora si misero a parlare seri. Poi uno di loro si rivolse a Joe: «Ehi, tu, vieni un po’ qua». Le stesse parole di Larry.

«Sai giocare a basket? Facci vedere quello che sai fare. Oggi siamo contati e un sesto ci farebbe comodo».

Così dicendo gli sparò addosso il pallone, che Joe prese e rigirò nelle mani, come se non avesse mai visto niente di simile e come se non avesse mai toccato una sfera che chissà perché gli sembrava tanto amica.

«So tirare» disse a bassa voce e fece subito canestro da dove si trovava, lontanissimo dal canestro. Gli ridiedero la palla, sfottendolo per la fortuna e lui, facendo un passo indietro, due palleggi e “ciuff” e poi ancora e ancora e ancora. Increduli, i ragazzi lo massacrarono quasi di pacche sulle spalle per poi dargli appuntamento alle tre del pomeriggio, con maglietta verde, se ce l’aveva.

Quando la finale di strada terminò, Joe se ne stava andando alla chetichella dopo aver giocato una partita memorabile: 30 punti senza nessun errore dal campo, dei rimbalzi si era perso il conto e poi stoppate, assist, palle recuperate. Il più grande del suo gruppetto, mentre festeggiava con gli altri, lo vide con la coda degli occhi: «Joe, quando ci rivediamo qui?».

«Non lo so mi devo allenare ancora tanto».

La mattina del 26 Joe era nello stesso identico posto in cui aveva visto da vicino per la prima volta Larry. Che arrivò puntuale: «Come hai passato il Natale, ragazzo?».

«Giocando a basket».

«Giochi bene?».

«Ieri sì».

Larry non rispose subito, ma tirò un paio di palloni. Il secondo ero io e quando entrai… “ciuff”! I due tornarono ad essere loro stessi, Larry sembrò per un attimo confuso, Joe invece quando mi prese in mano per riconsegnarmi sembrava che non mi volesse mollare più.

«Quel pallone è tuo – disse Larry – te lo regalo e ti regalo anche un consiglio: se ieri hai giocato bene potrai continuare a farlo, se ti allenerai sempre e lavorerai duro per migliorarti. Vale per me, vale per tutti gli sport. Quella palla sarà il tuo portafortuna».

Da quel giorno io sono andata in pensione. Joe mi ha sempre tenuto con sé, nella sua cameretta, ma non mi ha più usata su un capo da basket perché – diceva – non mi voleva sciupare. Larry si è ritirato da tempo, Joe è cresciuto ed è diventato qualcuno. Non importa in che cosa, quando ogni tanto mi prende in mano e mi accarezza so a cosa pensa: che nella vita i sogni si realizzano, se tu fai di tutto per farlo accadere e se dai tutto te stesso per l’obiettivo da raggiungere. E questo, non solo la notte di Natale.

 

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Franco Montorro si definisce “bolognese dal 1960”, anno di nascita, ed è giornalista professionista dal 1990. Per lunghi anni si è occupato di sport – prevalentemente basket – e oggi cura il sito www.bolognain.info

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