Basket
Fortitudo: un’Aquila finalmente tricolore
Destino: una delle parole forse più inflazionate e al tempo stesso interpretabili della nostra lingua. Dietro quella che viene definita come l’ineluttabile concatenazione di cause che determinano gli eventi della vita, c’è chi invoca un disegno superiore non sempre esplicabile e chi, invece, riconduce tutto ad una complessa formula matematica.
Declinato in salsa fortitudina, il concetto di destino coincide con quello di sofferenza, perché se c’è un filo conduttore nella storia della fede biancoblu sono le difficoltà attraverso le quali è passata ogni conquista, per lo più riemergendo da frustrazioni e momenti di sconforto. E questo leit motiv ha accompagnato anche uno dei picchi più elevati raggiunti dal volo dell’Aquila scudata. Non sono passati nemmeno due anni dalla storica Coppa Italia del febbraio ’98, seguita dalla conquista della prima Supercoppa nel derby dello stesso settembre, ma se l’appetito vien mangiando, aver in pochi mesi sfatato un lungo tabù e raddoppiato i trofei nella bacheca di via San Felice non può bastare ad una realtà in continua crescita come il suo sempre più affamato popolo: ciò che manca davvero è LA vittoria, quello scudetto troppe volte solo sfiorato e finora sempre dolorosamente sfuggito.
Dopo tre finali consecutive perse (e la quarta da poco mancata dopo una regular season dominata), il mondo Fortitudo è circondato da un misto tra cinismo e fatalità, quasi come se quell’opportunità più volte accarezzata sia ormai sfumata: secondo molti, infatti, “è destino” che la Fortitudo resti una perdente incompiuta. E chissà quante volte questo pensiero sarà balenato anche nella mente di capitan Carlton Myers, reduce dai trionfi con la Nazionale che l’hanno definitivamente consacrato nell’Olimpo del basket italiano all time, ma dopo quattro anni ancora incapace di condurre la squadra che l’ha adottato ed eletto a proprio simbolo a quella storica affermazione che sembra sempre più una chimera.
Sempre più diffuso serpeggia il dubbio di una vera e propria maledizione, tanto che si vocifera che anche patron Seragnoli abbia intenzione di defilarsi (da qui l’ingresso in società del fantomatico Winnington Group svizzero) o anche solo di risparmiare un po’; dei miliardi di lire volatilizzatisi in travasi di bile negli anni precedenti. Ma il cuore pulsante dell’Aquila e dei suoi Leoni continua a battere. Dopo i fuochi d’artifici cui ci si era abituati sotto le Due Torri, l’estate ‘99 passa con la conferma del nucleo della squadra che nell’;ultima stagione è stata battuta al fotofinish da Treviso in gara 5 di semifinale: accanto ai vari Myers, Karnisovas, Fucka, Pilutti e Gay, in cabina di regia viene data fiducia alla giovane coppia Gianluca Basile-Marko Jaric e, dopo lo sciagurato prestito a Varese, viene opportunamente riportato alla base Gek Galanda. Ma i colpi veri e propri arrivano sotto canestro ed in panchina: direttamente dai Los Angeles Clippers viene ingaggiato il pivot croato Stojan “Stojko” Vrankovic, lo Zio Bello, il totem attorno al quale compattarsi in campo e nello spogliatoio, l’idolo pagano invocato a furor di popolo per “scoraggiare” la spavalderia di quell’altro slavo che spadroneggia dall’altra parte della città; a dirigere le danze, invece, è chiamato coach Charlie Recalcati, strappato a Varese dove è reduce da un sorprendente scudetto sulle ali di una coppia di funamboli di cui risentiremo parlare anche a queste latitudini.
La stagione regolare scivola via senza ostacoli (solo 3 sconfitte), ma come ogni anno tutti ormai attendono la resa dei conti dei playoff: qui la F raggiunge imbattuta la finale contro la bestia nera Treviso, perdendo però per infortunio Arturas Karnisovas, sublime secondo realizzatore della squadra e fondamentale bilanciatore dell'attacco biancoblu. Ma ancor più pesante si rivela la tensione schiacciante che attanaglia i ragazzi di coach Recalcati in gara 1 e, complice l'imprendibile Tyus Edney, la Benetton fa saltare subito il fattore campo. I tre giorni che separano il secondo atto della finale sembrano non passare mai, accalcandosi giudizi e critiche nei confronti di una squadra che, ancora una volta, sembra essersi sciolta sul più bello. E’; una storia già vissuta: di nuovo quel fatale destino, la maledizione che colpisce ancora.
E invece no.
L’astrofisico Stephen Hawking diceva: “Ho notato che anche le persone che affermano che tutto è già scritto e che non possiamo far nulla per cambiare il destino, si guardano intorno prima di attraversare la strada”. In gara 2 al Palaverde di Villorba la banda biancoblu risponde con ferocia, dominando la partita sin dalla palla a due e scacciando i fantasmi anche grazie alle sue tre torri (Vrankovic, Fucka e Galanda) schierate per la prima volta in campo insieme. Non è un fuoco di paglia perché l’Aquila domina anche gara 3 trascinata da capitan Myers, ripresentandosi il 30 maggio a Treviso con il primo match point a disposizione. Anche se l’adagio “A Bologna non si festeggia” sembra farsi beffe della situazione, nessuno ha voglia di tornare al PalaDozza per gara 5: il trionfo deve avvenire proprio là, su un campo maledetto che per anni aveva riservato molti più dolori che gioie. Di quella gara 4 si può citare un super Gregor Fucka che distrugge il nemico Marcelo Nicola, il quintetto operaio composto da Basile, Myers, Pilutti, Galanda e Fucka che gira definitivamente la partita oppure i disastri in lunetta di Pittis che affossano le velleità di rimonta di Treviso. Ma l’istantanea più vera, ancora una volta, è quella dei tifosi biancoblu accorsi a Treviso che, fin lì increduli, a 59”; dalla fine esondano dallo spicchio in cui sono stati confinati e scendono fino alla panchina ospite, costringendo gli arbitri ad interrompere la partita ben oltre il timeout chiamato da coach Recalcati per convincere i suoi ragazzi che l’impresa a quel punto è davvero compiuta.
I festeggiamenti che seguiranno sotto i portici bolognesi sono vere e proprie baccanali, quella notte e nei giorni a seguire le strade del centro ed il Nettuno vestiranno il biancoblu dell’Aquila scudata e, finalmente, scudettata. Il 30 maggio di quell’anno cade di martedì e, quantomeno tra coloro che riusciranno a riprendersi dalla nottata, davvero nessuno si presenterà a scuola o a lavoro l’indomani senza esporre con orgoglio l’Aquila sullo scudo, anche solo portandosela addosso, magari nascosta sotto la camicia o un abito, per poi mostrarla con vanto alla prima occasione.
A due anni di distanza finalmente il popolo fortitudino può reimpadronirsi del 31 maggio, prendendo d’assalto il Fortitudo Point – all’epoca ancora in via Ugo Bassi – per accaparrarsi una maglia celebrativa, senza che più alcun ricordo doloroso possa reggere il confronto con quel momento. Anche per questo l’impresa compiuta da coach Recalcati e i suoi ragazzi è qualcosa di diverso rispetto ad un nuovo prestigioso trofeo da mettere in bacheca, come invece viene vissuto da coloro i quali di quei titoli sono ormai abituati e forse addirittura assuefatti: questa vittoria rappresenta una rivalsa sociale, cittadina ma non solo, di un popolo che non ha mai rinunciato a lottare nonostante anni di sconfitte e soprusi, è la rivolta contro quel destino che, per la prima volta, si è rassegnato a dover sorridere verso quella stessa gente contro cui si era troppo a lungo accanito.
“Quando non ho avuto più niente da perdere, ho ottenuto tutto. Quando ho conosciuto l’umiliazione ma ho continuato a camminare, ho capito che ero libero di scegliere il mio destino” (Paulo Coelho)
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