Basket
Albonico: la Virtus di Porelli scelse di ripartire dai giovani. Il racconto del playmaker della prima rinascita virtussina
Renato Albonico è testimone privilegiato della prima grande rinascita della Virtus Pallacanestro, quella, per intenderci, targata Porelli, che modernamente definiremmo la Virtus 2.0. La prima era stata quella gloriosa dei sei scudetti in undici anni sulle piastrelle della Sala Borse, tra il ’46 e il ’56. Poi, lo strapotere dell’Olimpia Milano e in seguito anche dell’Ignis Varese avevano relegato i bianconeri tutt’al più al ruolo di sparring partner, fin quando l’avv. Porelli non decise che fosse ora di invertire la rotta. Albonico di quella rinascita fu protagonista nel ruolo mica indifferente del playmaker, del “cervello” della squadra, almeno fino all’arrivo di uno degli astri della storia virtussina, Charly Caglieris, col quale arrivò anche il settimo scudetto, venti anni esatti dopo il precedente. Ma la squadra del nuovo titolo era figlia di un progetto che era cresciuto proprio attorno anche ad Albonico, che oggi è commentatore televisivo delle partite della Segafredo. Lo siamo andati a trovare perché ci piace provare a credere che l’attuale società potrebbe cercare di rinverdire le sorti di quella che sarebbe diventata la Virtus dei massimi miti bianconeri. La situazione non è poi potenzialmente così distante: una squadra che è dovuta ripartire dal fondo e che grazie ad un oculato programma tecnico e amministrativo ha raggiunto i massimi vertici. Quest’ultima parte sarà ovviamente tutta da impostare, ma le premesse potrebbero anche esserci.
“Anche quella Virtus effettivamente ripartì dal suo minimo storico, con la partecipazione agli spareggi per non retrocedere nel 1971, partendo da quello che era stato un equivoco, o meglio un progetto non andato a buon fine”, ci ha detto Albonico, in avvio di una lunga conversazione che vorremmo riportare in due puntate: una prima sulla nascita del progetto, l’altra sul conseguimento dei primi successi, propedeutici alla riconquista del titolo tricolore. “L’anno precedente, infatti, nel ‘69/’70, la Virtus decide di provare a vincere lo scudetto; così, prende l’allenatore considerato il migliore sulla piazza, Nello Paratore, tecnico della nazionale, prende come americano Terry Driscoll, strappandolo addirittura alla NBA, cosa che allora sembrava incredibile, e lo inserisce in una intelaiatura che comprende quattro/cinque giocatori di interesse nazionale, primi fra tutti Lombardi e Cosmelli. Io allora ero a Milano, all’All’Onestà, con Percudani allenatore e il grande Tony Gennary play titolare ma fisicamente in una situazione complicato, per cui mi restavano a disposizione molti minuti sul campo, benché ancora poco più che ragazzino, e questo mi permise di completare abbastanza rapidamente la mia formazione come senior. A Bologna tuttavia Driscoll si fa presto male, proprio contro di noi, e la Virtus per questo ed altri motivi arriva solo in fondo alla classifica. Porelli così decise di rifondare tutto, e un po’ per ragioni economiche un po’ per questioni tecniche decise di ripartire dai giovani: ceduti, fra mille polemiche, i pezzi forti Lombardi e Cosmelli, in casa c’erano già Pippo Rundo, Giorgio Buzzavo e Gigi Serafini, poi presero me e Gianni Bertolotti. Eravamo cinque ragazzini, tra i diciannove e i ventitre anni, con Ettore Zuccheri che doveva farci da “babbo” (ma si fece male quasi subito) ai quali si aggiunse Doug Cook, probabilmente non il più scarso americano che sia mai venuto alla Virtus, come alcuni sostengono, solo che per lui stare in Italia era come una galera. Io ero il solo a parlare inglese in modo sciolto, nel gruppo, per cui mi usavano come interprete e questo mi permise di entrare più in confidenza con lui. Tracuzzi, il nuovo allenatore, aveva voluto Doug Cook come propria prima scelta, dai Cincinnati Royals. La Virtus aveva scelto di non prendere un pivot perché aveva già Serafini, che poi crebbe moltissimo proprio perché in tal modo poté giocare tanto. Cook, inoltre, stava anche male, per una infiammazione gastrica che lo debilitava, era sempre pallido. Insomma, giocavamo senza americano. In questo modo arrivammo agli spareggi tra le tre squadre effettivamente più scadenti del campionato. Biella aveva sì Bennet, probabilmente l’americano più forte in Italia, ma vincemmo contro di loro giocando davvero bene. Soprattutto Cook, che aveva giocato bene solo la prima partita del campionato e poi, per fortuna, quegli spareggi, per cui ci salvammo”.
L’anno dopo invece arrivarono Piero Gergati, Toio Ferracini e naturalmente John Fultz. Sempre, comunque, dei giovani, così come stava cominciando ad inserirsi Loris Benelli. Con Gergati ero già amico fin dalle giovanili. Eravamo in tre playmaker nati nel ’47, io, lui e Giulio Jellini, anche nelle nazionali giovanili. Eravamo amicissimi. Il suo arrivo mi permise di passare a giocare da guardia, siccome avevo punti nelle mani. Io avevo un difetto: se giocavo play non riuscivo a fare anche la guardia, praticamente giocavo solo per gli altri. E dire che nel ‘76 sono stato il migliore tiratore del campionato, americani compresi. Peraltro, con Gergati ci integravamo quasi perfettamente. Quell’anno comunque riuscimmo a levarci di dosso un peso grandissimo, non era stato facile digerire la storia degli spareggi, sebbene la società non ci abbia mai fatto pesare la situazione, probabilmente perché consapevole dei limiti che poteva avere una compagine così imberbe. L’anno prima in fin dei conti ci era peraltro servito perché eravamo migliorati un po’ tutti, per ciascuno di noi era stata la prima volta che si partiva come titolari ed i frutti si sono visti gli anni successivi, anche se con l’arrivo di Fultz sembrava bastasse in realtà dare la palla a lui che faceva sempre canestro. Per la verità, bisogna tuttavia precisare che non era solo un tiratore: prendeva rimbalzi, difendeva sui lunghi, un giocatore completo, cioè, fantastico. Gianni stava crescendo in modo prodigioso, Toio era complementare a Gigi (gran difensore e rimbalzista, non trovava mai occasione per lamentarsi), io e Piero come già detto ci incrociavamo benissimo. Fatto sta che dopo un inizio tutto in salita, che costò la panchina a Tracuzzi, la squadra cominciò a decollare e alla fine arrivammo quinti, in campionato, dietro a Milano, Varese, Cantù e la Splugen Venezia. Tra i tifosi della Virtus stava tornando l’entusiasmo”.
“Curioso è come era andato il campionato: avevamo cominciato malissimo. Tracuzzi non godeva di grande stima da parte della società. Era un allenatore vulcanico, anticonformista, le sue “tracuzzate” erano famose come le invenzioni più stravaganti: un allenatore che oggi come oggi manca alla pallacanestro, uno sperimentatore che magari sta sveglio la notte per trovare qualcosa di originale, come potrebbe essere cercare di fare qualcosa di diverso dal solito pick’n’roll. Capitava così che talvolta facesse baggianate, ma era stimolante, perché i suoi allenamenti erano sempre differenti. Con Tracuzzi ad esempio ho fatto una difesa che divideva il campo in diagonale e che dopo anni e anni ho rivisto fare da Lou Carnesecca, che l’aveva chiamata “Help”. Per dirne un’altra: dovevamo andare a giocare a Varese, dove prendevamo sempre una barca di punti. Lui allora ebbe un’idea e in allenamento ci fece invertire i ruoli: io, che sarei stato marcato da Ossola, giocavo sotto canestro, Gigi, marcato da Dino Menghin, portava avanti la palla. Tutta la settimana così, poi in campo non ha avuto il coraggio di proporla, ma insomma, uno così non era ben visto da tutti in Virtus, anche per il suo carattere tutt’altro che facile. Comunque, ad inizio stagione mettono sopra di lui Garulli, un preparatore atletico che passa per essere un fenomeno dell’educazione motoria, ma con poca esperienza nel basket, con un ruolo più ampio del semplice preparatore; in pratica, deve sovrintendere all’intero lavoro tecnico di Tracuzzi. Il problema era che diversi giocatori erano nuovi e non era facile trovare l’intesa, per cui avevamo bisogno di provare molto sul campo. Garulli invece organizzava gli allenamenti durante la settimana privilegiando l’aspetto atletico, per cui l’aspetto tecnico risultava penalizzato dallo sforzo fisico prodotto, con anche una certa arroganza. Così, una volta, senza dirgli niente, ci mettemmo d’accordo per fare allenamento senza di lui, alla Marconi, per riuscire a curare certi dettagli tecnici. La società lo venne a sapere, e qualcosa contò sull’esonero di un allenatore che alcuni non avrebbero mai voluto. Giunse così Nico Messina, che aveva nel pedigree uno scudetto con l’Ignis, ma di basket ne sapeva il giusto, essendo più che altro un preparatore atletico di calcio, che aveva fra l’altro già sostituito proprio Tracuzzi a Varese. Un uomo però che sapeva come farci stare bene, senza tensioni, per cui andavamo a fare allenamento con lo spirito di trovarci a giocare con gli amici.”.
“Naturalmente, la vera differenza la faceva comunque John Fultz. Un fenomeno. Noi l’avevamo accolto perché ci serviva uno che facesse canestro, ma dirò che era bello da vedere anche per noi per l’eleganza innata dei suoi movimenti. Era un indiano, con un quarto di sangue Cherokee. Bravissimo, uno spirito libero, con la moto, la fascia, un compagno dentro e fuori dal campo. Con Cook avevo avuto un certo rapporto, ma Fultz era un’altra cosa, uno di noi, non come di solito gli americani. In tre anni è sempre stato qualcosa di unico, anche perché era un figlio dei fiori. Come molti giocatori americani si era portato dietro le abitudini dei campus universitari, per cui era diversissimo da tutti noi, per come considerava il tempo, il denaro, per come voleva vivere la giornata. Generoso è dire poco: se aveva mille lire in tasca e uno gliele chiedeva, lui gliele dava, non teneva nulla per sé, non ricevendo magari in cambio altrettanta generosità.”.
Ed è all’insegna di John Fultz e di un altro grande personaggio, Dan Peterson, che la Virtus a questo punto tornerà ad appartenere all’élite del basket italiano. (segue…..)
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