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Fortitudo: Mi ritorna in mente

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Ci sono strade nella vita che non si possono scegliere, che non seguono il corso di una moda e non rispondono a decisioni dirette o mediate: semplicemente vengono intraprese ed in quello stesso istante pregiudicano per sempre la possibilità di girarsi e tornare indietro.

Per un bambino nato alla fine degli anni ’80 in via San Felice a Bologna, che ama giocare a pallacanestro con gli amici di scuola, una di quelle strade porta alla Fortitudo.

E’ il 1994 e la Fortitudo Bologna partecipa al suo secondo campionato di serie A1 consecutivo dopo anni di promozioni e retrocessioni tra prima e seconda serie. La squadra è sponsorizzata da Filodoro, noto marchio tessile esposto su una delle più belle divise da gioco che si siano mai viste per chi ha a cuore il simbolo della F scudata sovrastata dall’aquila, di proprietà della Società Ginnastica Fortitudo con sede in via San Felice n. 103.

Agli ordini di coach Sergio Scariolo, il giocatore simbolo è la guardia Vincenzo Esposito, tiratore micidiale e vero e proprio fulcro di una squadra che ha positivamente sorpreso l’anno precedente e vuole affermarsi anche grazie all’acquisto del playmaker slavo Aleksandar Djordjevic. La nuova proprietà è ambiziosa ed il roster è competitivo, ma desta qualche perplessità la compatibilità tra le due guardie titolari, perché Esposito è abituato ad accentrare su di sé gran parte delle responsabilità offensive ed ora invece dovrà condividerle con il nuovo compagno di reparto.

Quel bambino, però, tutto questo non lo sa ancora, o almeno ne sente parlare dagli adulti attorno e ne capisce davvero poco: lui vuole solo giocare a pallacanestro con gli amici e non vede l’ora, finita la scuola, di prendere il suo zaino blu con una grande palla da basket bianca stampata, indossare i pantaloncini con la F scudata e correre per le poche decine di metri che separano casa dal cortiletto d’accesso della palestra Furla. Qui, superato il pesante portone a saloon, getta immancabilmente un’occhiata alle merendine esposte sul bancone del bar (forse, pensa, più tardi una se la concederà) e si lancia giù dalla ripidissima scalinata che porta al campo da gioco, superando la saletta con il tavolo da ping pong e respirando a pieni polmoni l’odore di parquet e gomma che già inonda l’ambiente.

Scese le scale impaziente di prendere in mano quel pallone, il bambino si ferma di colpo: il campo è occupato, ci sono “i grandi” che si allenano e non bisogna disturbarli.

Come improvvisamente intimorito, il bambino si siede composto sulle panche a lato del campo ed osserva quei giganti che corrono sul parquet facendo stridere le scarpe tra le urla degli allenatori.

Se la voglia di giocare è tanta e la loro presenza è certo un ostacolo al momento tanto atteso, al tempo stesso il bambino prova una tale riverenza che, quando un pallone rimbalza a pochi centimetri dal punto in cui è seduto, rimane quasi immobilizzato e si fa soffiare da altri la possibilità di ritirarlo in campo: nel suo piccolo, rimpiangerà a lungo di aver perduto l’occasione di un gesto di coraggio di cui si sarebbe potuto tanto vantare.

Quando giunge finalmente il suo momento di entrare in campo, il bambino finge di non accorgersi che, spesso, alcuni di quei ragazzoni, quasi volessero ricambiargli il favore, si fermano per qualche istante a guardare lui e i suoi compagni rincorrersi sulle assi lucide dipinte del pavimento. E quando il pallone, immancabilmente, finisce fuori dal campo, a ripassarglielo sono proprio Vincenzino Esposito o Dan Gay o Marcelo Damiao o, se proprio è fortunato, il suo preferito, quel ragazzo pallido che in campo sembra così serio ma che a lui mostra un gran sorriso e tutti chiamano (chissà poi perché, si chiede) Sasha.

Basta quell’attimo perché il bambino possa riguardare quegli stessi giocatori in posa sul poster attaccato alla porta della sua cameretta da letto, raccontando orgoglioso che lui sì che li conosce davvero, anche se in realtà mai aveva avuto il coraggio di rivolgere loro la parola o anche solo di reggere lo sguardo per qualche istante oltre ad un “grazie” appena sussurrato.

Solo dopo capirà che quel privilegio di cui andava così fiero difficilmente sarebbe capitato con “gli altri”, quelli che vincevano lo scudetto da ormai due anni consecutivi e lo avrebbero fatto anche al termine di quella stagione: loro, gli spiegano, rappresentano la nobiltà del basket, loro giocano e vincono ai massimi livelli e perciò mantengono le distanze dalla gente di quartiere come il bambino e i suoi amici. Anche di là, peraltro, gioca un certo Sasha che però ha davvero ben poca importanza nella testa del bambino: per lui gli unici campioni si chiamano Enzino, Dan, Claudio, Roberto, Marcelo, Andrea e, soprattutto, quel ragazzo dai capelli rasati che tutti (chissà come mai?) chiamano Sasha ed indossa il numero 20 di una delle più belle divise che si siano mai viste su un campo da basket.

 

Nota a margine: a roster, in quella stagione, compare anche un giovanissimo ragazzino di nome Davide Lamma: all’epoca nessuno può immaginarlo, ma qualche anno più tardi quel nome è destinato a rimanere per sempre associato alla squadra per cui fa da sempre il tifo. Ma questa è un’altra storia…

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