Basket
7 Maggio, il punto su Basket City. Ci sarà un futuro?
I giorni passano, ma la confusione nel mondo del basket invece di cominciare a dissolversi pare che aumenti. Il disastro provocato dalla pandemia è sotto gli occhi di tutti; il problema, però, è che difficilmente tutto si risolverà con dei colpi di spugna o buttando la cenere sotto i tappeti. La situazione economica è quella che è e da questa cosa non si può prescindere; i tempi della ripresa sono tuttora incerti e chissà per quanto ancora potranno rimanerlo. Perché allora non provare a rimettere in discussione tutto, progettando non una semplice ripartenza velleitaria, bensì una vera e propria ristrutturazione del sistema? Da anni ormai quest’ultimo fa acqua da tantissime parti: non si gioca, in pratica, un campionato del tutto regolare da troppo tempo, per i problemi finanziari che sistematicamente colpiscono una o più società di serie A; la nazionale non riesce a riemergere da posizioni di assoluto rincalzo; lo spettacolo medio è sufficientemente mediocre; la distanza del movimento cestistico dai media che contano cresce sempre di più. Quello che sentiamo provenire dai piani alti della FIP sono palliativi quasi esasperanti: bello sì, ripartire in autunno con una Supercoppa allargata, ma a quali condizioni? Senza pubblico, chi paga? Sono mutati i rapporti coi media, si stanno sottoscrivendo nuovi contratti che produrranno gli introiti indispensabili perché la maggior parte delle società possa tornare in campo? Qui non basta riunirsi in videoconferenze per avvallare le proposte che giungono dall’alto, occorre ricreare tavoli di discussione per rivedere l’intero sistema. Partendo da chiare regole finanziarie: il settore professionistico non può accettare gestioni da polisportiva di quartiere. Quindi, una soluzione potrebbe essere creare una lega forte al proprio interno, fatta da sole società che diano garanzie di stabilità, partecipanti ad un campionato maggiore senza retrocessioni per alcuni anni per permettere una seria programmazione senza spade di Damocle sulla testa. Che siano dieci e sedici, in questo frangente, poco conta, perché le partite si possono moltiplicare con le formule; imprescindibile, viceversa, è che dopo due mesi non si tornino a vedere partite dove si capisce che qualcuno non prende lo stipendio da chissà quanto. Poi, il settore giovanile: quanti anni sono che non escono più campioni di livello con un briciolo di continuità? Decenni? Si vuole affrontare il tema senza ricorrere ai soliti slogan, uscendo dagli stereotipi socioculturali e riprogettando sia la didattica che la premialità? Come mai a livello giovanile siamo stimati internazionalmente, poi, diventando adulti, torniamo in un limbo imbarazzante? Non sarà che i nostri allenatori vivano con l’incubo del taglio se non vincono i tornei, per cui costruiscono i giocatori per vincere nell’immediato, invece di dar loro il tempo di costruirsi come atleti, nel corpo e nella tecnica? Intendiamoci, ci sono due livelli distinti su cui si potrebbe lavorare: un piano amatoriale, provinciale/regionale, ove l’aspetto agonistico potrebbe soddisfare lecite esigenze ludiche, ed uno nazionale, che potrebbe premiare più la crescita e la produzione di atleti davvero futuribili rispetto a vincere tornei. Questo potrebbe permettere alle squadre maggiori di inserire anche giovani che non scaldino unicamente le panchine ma possano essere inseriti progressivamente con responsabilità nel gioco, soprattutto se non ci fosse l’incubo della retrocessione, anche senza dover ricorrere a espedienti normativi sulle limitazioni per gli stranieri o sugli obblighi sul numero degli autoctoni. Queste magari saranno idee senza senso, ma da qualche parte bisognerà ricominciare senza ripetere gli errori che si perpetuano per lo meno da inizio millennio. Uscire dalla pandemia con un progetto in tasca e nella mente che non si limiti a tamponare le ultime falle create in uno scafo già tanto crepato potrebbe rappresentare un’occasione straordinaria di rilancio per il basket. Ne saremo capaci?
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