Basket
SOS Italia. L’ottimo risultato di Tokyo può dirsi vera gloria?
L’ottimo risultato ottenuto a Tokio 2020 dalla Nazionale maschile di basket (che i media spesso associano all’eliminazione subita ai quarti da altri sport, come pallavolo e pallanuoto, non considerando che è ben differente la situazione di chi si candida quale protagonista e chi viceversa già per la sola presenza possa considerarsi soddisfatto) non deve lasciar passare il messaggio che le cose, nella pallacanestro italiana, siano davvero migliorate negli ultimi tempi. Sì, è chiaro che tornare alle Olimpiadi dopo 13 anni è di per sé un grande risultato; è indiscutibile che il lavoro fatto da Meo Sacchetti, nonostante gli infiniti spifferi negativi e un ambiente federale – ma non solo – non proprio amico, sia stato straordinario, per i motivi che ormai tutti stanno ripetendo; è evidente, infine, che come immagine internazionale il nostro basket si sia riguadagnato crediti smarriti per oltre un decennio. Tuttavia, se andiamo ad analizzare con attenzione quanto accaduto, le considerazioni che se ne possono trarre non sono proprio così confortanti.
I protagonisti principali, infatti, della spedizione azzurra devono la propria crescita definitiva a qualcosa che col sistema italiano non solo c’entra poco, ma addirittura lo spinge in secondo piano. Per lo più, in effetti, si tratta di giocatori che hanno compiuto il salto di qualità abbandonando lo stivale e la supponenza di un sistema bravissimo a parlarsi addosso ma i cui risultati parlano da soli. Il solo Stefano Tonut, tra i protagonisti, si può considerare prodotto integralmente italiano, assieme alle figure che purtroppo nella spedizione hanno fatto più che altro le comparse: Ricci, Moraschini, Vitali, Spissu e Tessitori. Capaci, sì, di buoni spunti, ma onestamente nell’occasione poco più che gregari. Oltre a Tonut (che ha patito peraltro alti e bassi) gli altri giocatori che hanno davvero saputo contrastare i giganti avversari sono stati Mannion, italiano giusto di passaporto; Simone Fontecchio, ex brutto anatroccolo trasformatosi in cigno nell’anno a Berlino; Gallinari, che la NBA ha logicamente trasformato; Polonara, per il quale vale il medesimo discorso di Fontecchio (anche se in origine un po’ meno brutto anatroccolo), però in un biennio iberico; Melli, la sui piena maturazione è avvenuta tutta dopo aver lasciato l’Italia. Un discorso decisamente diverso si potrebbe fare per Alessandro Pajola (alias Asa Pajolic?) che non è mai uscito, sì, dal suolo italico, ma quanto si può dire sia stato fondamentale per lui lavorare nell’ultimo periodo con Sale Djordjevic, Milos Teodosic e Stefan Markovic, avendo l’occasione di immergersi in una realtà così impregnata di spirito slavo, tanto da renderne plausibile un soprannome da giocatore serbo?
Nella sostanza, i risultati dei lavori prodotti dal sistema italiano non possono ancora essere considerati veramente confortanti. Difficile dire se sia una questione di quantità oppure di qualità del lavoro, o forse sono entrambe; fatto sta che i migliori italiani sono quelli che ad un certo punto emigrano, per tornare letteralmente trasformati, nella tecnica e nel carattere. Mi pare il caso di porsi più di un interrogativo, anche perché negli ultimi anni le nostre giovanili hanno ottenuto risultati migliori della prima squadra nazionale, in relazione ai propri impegni specifici. Non credo nemmeno si debba ridurre il tutto alla questione dei troppi stranieri in campionato, giacché giocatori come Polonara, Melli, Fontecchio non è che non avessero avuto minutaggio per emergere prima di espatriare. Ed ai vari Ricci, Vitali, Moraschini, eccetera nelle proprie squadre sono stati concessi spazi anche considerevoli. Penso che in Federazione, in Lega ma soprattutto all’interno del C.N.A., il Comitato Nazionale Allenatori, la questione debba essere affrontata.
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