Basket
Vent’anni dopo
Una liberazione, anche per loro. Per Manu Ginobili, Anoine Rigaudeau, Rashard Griffith, Alessandro Abbio, Hugo Sconochini, Matjaz Smodis e tutti gli altri. Perché quando sei l’ultimo ad aver vinto uno scudetto nella storia di una società che di gloria ne ha da vendere, all’inizio sei orgoglioso, consapevole di aver fatto qualcosa di eterno. Con gli anni, però, quell’eternità diventa quasi un peso: ti fa sentire un pezzo di storia, qualcosa che appartiene a un passato che sta scritto sui libri. Dopo vent’anni, è quasi una condanna. Ti tengono in mezzo alle vecchie glorie, come il servizio da the di porcellana che non si usa nemmeno la domenica, ti chiamano a qualche rimpatriata, ma in fondo ti guardano come se fossi colpevole di qualcosa. Di essere stato l’ultimo, in un tempo che non promette un futuro fatto della stessa gloria.
Vent’anni dopo, Milos Teodosic, Marco Belinelli e il resto della truppa hanno spazzato via le ragnatele. La Virtus è campione d’Italia adesso, in questi anni Venti del nuovo millennio. Esce a testa alta da una stagione scombinata, segnata dalla pandemia che ha vuotato i palazzetti, spesso annullato il fattore campo, mescolato il calendario. E vince quando conta, come ai vecchi tempi, perché trionfa in un campionato che è arrivato fino in fondo come una speranza di rinascita, di futuro, di normalità.
I tifosi bianconeri possono mettere i ragazzi del 2001 nella bacheca dei ricordi migliori, senza dimenticarli ma senza dover sempre ricorrere a loro per pensare a qualcosa di bello. I ragazzi del 2021 hanno portato sogni nuovi e coloratissimi.
PACE IN TESTA, FUOCO NEL CUORE – C’è un eroe che ha vissuto molte vite in pochi mesi, in questa storia. E’ stato messo in discussione, ha chiuso e riaperto la porta del cielo, è stato spesso indicato come il colpevole di qualcosa che sembrava non funzionare più. Non ha perso la testa, Sale Djordjevic. Me li ricordo bene, i giorni in cui si inventò quella frase bellissima, da motivatore vero.
Eravamo tutti ad Anversa, la Virtus era approdata alla Final Four di Basketball Champions League, ma non certo da favorita. Veniva da un campionato finito senza lode e con qualche infamia, fuori dai playoff e battuta in semifinale anche in Coppa Italia. Era appena un paio d’anni fa, eppure sembra passato un secolo, e certamente lo tsunami che ha travolto le nostre vite, non solo la nostra passione sportiva, ha reso i ricordi più sbiaditi di quanto dovrebbero essere. Prima della partita col Bamberg, dunque, Djordjevic se ne uscì con quella frase: “Dobbiamo avere pace in testa e fuoco nel cuore”. Bella, ad effetto. Ma c’era tanto di più. Ci spiegò allora quello che ha ribadito in questi giorni che resteranno nella storia. Che in una Final Four, in una finale-scudetto, in un ultimo atto come questi arrivano sempre e comunque i migliori. Se ci arrivi significa che sei attrezzato, ma lo sono anche gli altri. E allora devi avere qualcosa in più: serenità. Devi andare in campo con la testa libera da pensieri e pressioni, devi lasciare fuori l’idea di dover vincere ad ogni costo, e semplicemente lasciarti guidare dal furore che viene dal cuore. Se hai lavorato con dedizione, se hai sempre tenuto la barra dritta, raccoglierai i frutti.
In questi playoff, non solo nell’ultimo atto con Milano, il timoniere della Virtus ha dimostrato di essere l’uomo giusto. Uno che ha avuto fiducia nel suo gruppo, un pugno di uomini che lo hanno ripagato credendo in lui. Quando le cose sembravano andare per il verso sbagliato, anche in questa stagione, lui si è semplicemente chiuso in palestra, nelle sue certezze e con intorno gli uomini giusti. Oggi può sorridere di tutto quello che si è detto di lui. Ha vinto.
PENSANDO A UN AMICO. E’ la Virtus ed è la Segafredo. Cioè, l’impegno di Massimo Zanetti nel rifondare con convinzione, seguendo un percorso preciso e mettendo in gioco anche la sua forza economica, per dare alla Virtus una nuova credibilità. Quando Gentile e Aradori arrivarono alla Porelli, fu un’inversione di tendenza: i più quotati italiani riprendevano la strada della V nera. Quando è arrivato Milos Teodosic, ha dato il “la”: lo hanno seguito campioni che finalmente ritrovavano la Virtus nella mappa della pallacanestro internazionale che conta. Quando si è unito alla truppa Marco Belinelli, per chiudere meravigliosamente il cerchio là dove tutto era iniziato, ha detto: “Sono qui perché ho ancora voglia di vincere”. Molti credevano che fossero parole di circostanza, oggi sanno che peso avessero.
Massimo Zanetti ha avuto parole illuminate, nel giorno del trionfo. “Sono qui perché mi ha voluto Alberto Bucci”, ha ricordato. Onorando un grande uomo che pensava che la vittoria è un dono da conquistare anche attraverso le sconfitte, con pazienza e consapevolezza. Che non si vince sempre, ma sempre si vince quando si esce dal campo avendo dato più del massimo.
IL RAGAZZO DEL FUTURO. Qualche riga in prima persona, anche se non ci sono abituato. Ho vissuto sei anni dentro il mondo Virtus, ho visto passare talenti veri, qualcuno con più fortuna e qualcuno che non ha potuto dimostrare quello che valeva, fenomeni che non si sono rivelati tali, stelle che hanno brillato lo spazio di una notte. Ho vissuto momenti storici, nella buona e nella cattiva sorte: una retrocessione maledettamente storica, quella del 2016, la prima subìta davvero sul campo, e quel ritorno da Reggio Emilia con le parole e le emozioni piantate in gola; un’immediata risalita, per niente prevista perché in quella stagione, 2016-17, la Serie A2 premiava una sola squadra su trentadue con la promozione diretta; quella vittoria ad Anversa, in una primavera che sembrava autunno, il ritorno di un trofeo continentale dopo dieci anni.
In questa girandola di emozioni, nel 2015 ho visto arrivare nella foresteria bianconera un ragazzino che aveva numeri e grinta, uno di quelli di cui si dice “se tiene la testa sulle spalle, arriva lontano”. Ecco, quel ragazzino adesso ha vinto lo scudetto, e da protagonista. In questa storia che spazza via la nostalgia del passato, è stato attore protagonista. E se ho imparato a conoscerlo, so che per Alessandro Pajola questo è soltanto l’inizio.
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