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Villalta e la mattonella, una storia d’amore

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Renato Villalta, da Maserada sul Piave, ha da poco compiuto 66 anni e da molti anni non calca più i campi, ma i parquet rimangono legati a lui in un legame strettissimo.

Non solo perché fu protagonista di un Trasferimento milionario da Mestre dove Augusto “Gianni’ Giorno, ex virtussino, lo aveva cresciuto e plasmato come un pivot di grandi doti realizzative e temperamentali, a Bologna, dove Peterson lo trasformò in un’ala forte, oggi diremmo un “4” di caratura europea. Non solo perché a Bologna ha giocato tredici stagioni, segnando e vincendo tanto e diventando capitano di una Virtus che arrivò allo scudetto della stella. Non solo perché la sua canotta numero 10 fu la prima ad essere ritirata dalla società bianconera (anche se poi fu rimessa in circolazione per un contenzioso economico-previdenziale tra Renato e la Virtus, per poi essere nuovamente ritirata, questa volta definitivamente). Non solo perché delle V nere fu presidente in tempi abbastanza recenti e meno felici di quando Villalta era l’idolo della Bologna che ama la V nera. Questo legame indissolubile è qualcosa di più fisico, è il connubio tra Renato e quella proverbiale mattonella dalla quale il numero 10 della Virtus (solo nel 1977-78 vestì la numero 11 lasciando l’altra a Bonamico, rientrato dal prestito alla Fortitudo) ha segnato molti del 9048 punti ufficiali segnati in maglia bianconera, che lo pongono davanti a tutti tra i realizzatori delle V nere della pallacanestro.

Più o meno un metro e mezzo fuori dall’area dei tre secondi, in posizione laterale, in una direzione compresa tra la retta che forma circa 15 gradi con la parallela alla linea di fondo passante per il canestro e il segmento immaginario che congiunge la base del canestro con il vertice della lunetta: da quella posizione Renato è stato una sentenza per le difese avversarie; un errore da lì andava considerato come un evento. Grandissimi giocatori, eccellenti passatori, da Caglieris a Cosic, da Roche a McMillian, da Brunamonti a Macy, a Sugar Richardson, tanto per citare solo alcuni dei suoi compagni alla Virtus, tralasciando tutti quelli che hanno avuto la fortuna di averlo come compagno di nazionale, potevano a occhi chiusi indirizzare il pallone in direzione di quella mattonella: Renato era là pronto a caricare quel tiro perfetto. Come quel 16 novembre 1988, ultima stagione del capitano alla Virtus. Vu nere avanti anche di 17 punti nel primo tempo, poi la rimonta di Milano che pareggia a quota 83 con una tripla di McAdoo, poi di nuovo 85-85 a 35 secondi dal termine, grazie a due liberi dello stesso Bob, che aveva subito il quinto fallo dell’ex Gallinari, al posto del quale entra Villalta. Palleggia Sugar, 33 punti, e tutta la difesa è concentrata su di lui: Richardson penetra e scarica a Villalta, fin lì solo quattro punti tutti nel primo tempo, tiro dalla mattonella e vittoria bianconera 87-85.

Per quanti anni i giochi della Virtus hanno previsto serie di blocchi per liberarlo, mentre difese consapevoli non riuscivano a porre rimedi a quell’ineluttabile destino: l’azione era destinata a concludersi con il pallone che usciva dalla retina tra l’entusiasmo di un pubblico innamorato. Fin qua però, chi ha una certa età e ha a cuore la pallacanestro ha letto vicende un po’ datate ma ben note. Probabilmente non tutti sanno come è continuato l’idillio tra Villalta e quella mattonella, una volta che il campione ha abbandonato il campo di gioco. Quando il parquet del Palazzo dello Sport di piazza Azzarita fu smontato, alcuni amici si adoperarono per donare la famosa mattonella Renato che se la portò a casa, sancendo per sempre un insolito ma stretto legame tra un giocatore e il suo ambiente naturale che Civolani definì così: “Dicesi mattonella quel metro quadro dal quale Renatone faceva mille volte paniere”.

 

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