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6 Dicembre 1990: Storia di una tragedia che sfiorò Casteldebole

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Capita spesso che, sopra i cieli dei campi di Casteldebole, planino velivoli a bassa quota.

La casa del Bologna Football Club 1909 dista, in linea d’aria, poco più di tre chilometri dall’aeroporto cittadino, e sovente gli aerei in partenza e in arrivo dal terminal bolognese transitano alti, ma non altissimi, sulle teste dei calciatori durante gli allenamenti. Il passaggio degli apparecchi in volo è quasi insignificante per quanti vivono il centro sportivo quotidianamente: la vista degli aeromobili sfugge al concetto di straordinarietà, e il rumore dei motori in sottofondo, che si mischia con quello dei veicoli a quattro e due ruote in transito sulla vicina autostrada, è musica abitudinaria. Ogni santo giorno, ma non quel 6 Dicembre del 1990.

Un piccolo aereo militare, ancora distante dal suolo, inizia a volteggiare sulla periferia Ovest di Bologna. In alta quota, ma abbastanza nitido e visibile agli occhi dei calciatori rossoblù. Sembra una danza, quella dell’aeromobile, che quasi distrae il gruppo, intento a preparare la trasferta di Parma della domenica successiva con particolare dovizia, data la situazione traballante di classifica. Mister Franco Scoglio è già stato esonerato da qualche settimana, dopo il KO interno in un altro, sentitissimo derby, quello col Cesena, ed è stato sostituito sulla panchina dall’esperto Gigi Radice. Durante le esercitazioni, il gruppo è quasi divertito nel vedere quell’aereo compiere una serie infinita di giri tra le nuvole, un po’ come fanno le Frecce Tricolori dell’Aeronautica Militare. Un piccolo show che funge da intervallo alla seduta e, nel suo piccolo, alleggerisce l’atmosfera cupa che da qualche tempo opprime quella squadra, invischiata nella lotta per non retrocedere.

Pochi secondi, però, e si capisce che non è un gioco quello del velivolo che, nel proprio zigzagare, inizia a perdere pericolosamente quota. I palloni si fermano, e gli sguardi abbandonano il campo e i compagni per indirizzarsi verso l’alto, seguendo la traiettoria di una scheggia impazzita che ha definitivamente squarciato il solito incedere della già citata quotidianità di Casteldebole. L’aereo supera il campo, la vicina autostrada e si perde dietro i primi caseggiati di Ceretolo, sfiorandoli. Poi, il tonfo, netto e sordo, e una colonna di fumo nero, nerissimo che inizia ad alzarsi, a meno di un chilometro da capitan Bonini e compagni, mentre da qualche parte, sulle prime colline tra la stessa Ceretolo e l’eremo di Tizzano, un uomo e il suo paracadute atterrano in maniera decisamente più dolce del veicolo impazzito sul quale volavano.

Il resto, è cronaca ormai nota a tutti, da 27 anni a questa parte. L’Aermacchi-MB26 partito dall’aeroporto di Villafranca di Verona per un’esercitazione, pilotato dal ventiquattrenne sottotenente Bruno Viviani e divenuto ingovernabile già poco dopo Ferrara, fallisce un disperato tentativo di atterraggio di emergenza al Marconi di Bologna e termina la propria folle picchiata sulla succursale di Ceretolo dell’istituto tecnico Salvemini, uccidendo sul colpo dodici alunni su sedici della Seconda A e ferendone ulteriori ottantotto, presenti all’interno della scuola in quell’istante. Le immagini dell’epoca mostrano un edificio completamente divelto e letteralmente bruciato dal carburante fuoriuscito dall’aereo, che prese fuoco pochi attimi dopo lo schianto. E tra i primi a giungere in Via del Fanciullo, proprio i calciatori di quel Bologna che abbandonarono il campo d’allenamento per recarsi sul luogo della strage.

Di quel giorno ricordo solo una scuola completamente devastata e una massa di fumo nero tutt’intorno”, racconterà in occasione del ventesimo anniversario Antonio Cabrini, giunto sulle rive del Reno nell’estate 1989 dopo i tredici anni alla Juventus e quella Coppa del Mondo alzata al cielo di Madrid nel 1982. “Tante volte, a mente fredda, ho ripensato a quei momenti e mi sono detto che quell’aereo sarebbe potuto cadere su quello stesso campo dove mi stavo allenando. E con tutti i posti che c’erano, si è infilato proprio dentro ad una scuola, un destino troppo crudele.

Se oggi, dopo più di un quarto di secolo, sappiamo tutto di quel tragico giorno, ignoriamo i nomi dei colpevoli e i motivi per cui lo Stato decise di prendere le difese di Viviani abbandonando al loro destino i familiari delle dodici vittime e quanti, rimasti in vita, portano ancora sulla pelle e nella propria memoria i segni di quel 6 Dicembre 1990. E se non possiamo, stando ai tre gradi di giudizio, additare nessuno per quanto accaduto, almeno teniamo in vita il ricordo di una delle pagine più cupe della storia recente italiana e bolognese, partendo dall’allora quindicenne Dario Lucchini, unico di sesso maschile tra i deceduti, cui è stato intitolato il plesso sportivo dell’Antistadio che sorge di fronte alla Curva Bulgarelli.

 

In occasione della prossima partita casalinga, quando inciteremo il pullman rossoblù che varca i cancelli dello stesso centro sportivo prima del match, ricordiamoci di dare un’occhiata al di là dell’inferriata, magari lasciando un fiore sulla stessa. Per Dario, ma anche per le due Alessandra, le due Laura, Deborah, Sara, Tiziana, Antonella, Elisabetta, Elena e Carmen, giovani figli di una Bologna che piange ancora le sue giovani vittime.

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