Bologna FC
7 Giugno 1964 – “Storia RossoBlù dalla nascita fino all’ultimo scudetto” – 16 Mar
36 – Il “passo doppio” di Medeo
Weisz. Ancora Weisz. Sempre Weisz.
Normale, quando si ha a che fare con un genio. E Arpad Weisz era un genio vero del calcio, uno avanti anni luce sul resto della compagnia. Ed è grazie a un’altra delle sue “invenzioni” se ancora oggi il Bologna può annoverare tra i grandi della sua storia un altro figlio di questa città. Proprio come Schiavio.
E’ grazie a quel tecnico idolatrato dal mondo del calcio e poi gettato in pasto alla tragedia della storia, che Amedeo Biavati è oggi unanimemente riconosciuto come una delle più grandi ali destre del Bologna e del calcio italiano. Per molti, la più grande di sempre. Anche se lo stesso Weisz probabilmente non si accorse subito del tesoro che aveva tra le mani. “Medeo” debuttò da mezzala, sostituendo Sansone, nel maggio del ’33. Aveva appena compiuto diciott’anni.
Due partite, quattro gol: doppietta contro il Casale, bis la settimana dopo addirittura contro il Milan. Un ragazzo. Succedesse oggi, sarebbero titoli a caratteri cubitali sui giornali. Allora no: non ci si fece caso più di tanto, la stampa ancora non creava “fenomeni” col parossismo di oggi. In ogni caso, non bastò comunque per una promozione sul campo. Biavati continuò a fare il “vice” di Sansone, e quando “Faele” si fece prendere dalla “saudade” e tornò momentaneamente in Uruguay, restò all’ombra di Maini, spostato in posizione di mezzala. Di più: si decise addirittura che il ragazzo aveva bisogno di ulteriore esperienza, e lo sì spedì in prestito al Catania, nel ’34-35. Soltanto due stagioni dopo, complice un infortunio di Maini, “Medeo” cominciò a trovare spazio nel ruolo a lui più congeniale. In tempo per salire i gradini della gloria calcistica e presentarsi all’appuntamento mondiale del 1938 con la Nazionale di Vittorio Pozzo, che lo preferì a Pasinati. E ovviamente per prendersi un posto di riguardo nel cuore dei tifosi rossoblù.
Era l’uomo del leggendario “passo doppio”. Difficile da descrivere quanto era semplice, per lui, metterlo in pratica. Una finta, un cambio di velocità che ubriacava l’avversario, lasciandolo sul posto, interdetto, mentre Medeo si involava sulla fascia per far decollare passaggi millimetrici per i compagni dell’attacco. Aveva il dribbling facile, come dimostra uno dei suoi gol-capolavoro, rimasto nella storia: a Milano, il 4 giugno 1939, contro l’Inghilterra, mise letteralmente a sedere il capitano Hapgood e il portiere Woodley prima di depositare il pallone in rete, a porta vuota.
Col gol, del resto, aveva parecchia confidenza: solo per il Bologna ne segnò 70, comprese quelle del campionato di guerra del ’44. E nemmeno il conflitto mondiale lo fermò: “Medeo” riprese sia in rossoblù che in Nazionale, e alla maglia azzurra disse addio soltanto nel ’47. Un anno più tardi, a 33 anni, con 258 presenze e tre scudetti alle spalle, lasciò il Bologna e diventò una specie di giramondo del pallone. Fece l’allenatore-giocatore al Manduria, in Puglia, e poi a Reggio Calabria, Imola, Rovereto, Città di Castello, addirittura in Libia. Lì, poco tempo prima dell’avvento di Gheddafi, fece l’allenatore della squadra della polizia di Tripoli. Tornò in Italia, a Rovereto, ma il declino anche personale era inesorabilmente iniziato. Fu bersagliato dalla sfortuna, da un destino avaro, e sopportò in silenzio.
Tanto in silenzio che il Bologna di quegli anni, dai Cinquanta all’anno della sua morte, il 1979, non seppe ricordarsi di lui nella misura in cui da lui aveva ricevuto. Ebbe una possibilità alle giovanili, accanto al vecchio amico Sansone, ma fu poca roba, un’esperienza brevissima. Fu invece il Comune ad offrirgli un impiego nel settore degli impianti sportivi. Un posto che accettò con serenità, e che gli permise di raddrizzare la rotta e di vivere con tranquillità gli ultimi anni di vita. Chiuse così, con modestia, lui che era stato un talento, e addirittura un campione del mondo. Lui che aveva letteralmente inventato un gesto tecnico che sarebbe passato alla storia del calcio.
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